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L'ALLARME
07 Ottobre 2023 - 17:52
Guadagniamo meno degli anni Novanta. Una frase d’effetto che trova però un triste riscontro nei salari che negli ultimi tre anni, dati Ocse, hanno subito un drastico calo rispetto al passato e agli altri Paesi. In particolare la categoria più penalizzata è quella dei dipendenti che contano sui redditi fissi, anzi statici, che non aumentano nonostante l’inflazione e i rincari generali dei prezzi al consumo. Un libero professionista può decidere di aumentare le sue entrate alzando il prezzo dei suoi prodotti o delle prestazioni, recuperando così, almeno in parte, la crescita dei costi. Per il dipendente invece il discorso è più difficile perché i contratti di lavoro si rinnovano, se va bene, ogni tre anni, ma spesso ci vuole più tempo, tant’è che oggi oltre il 50% dei contratti è scaduto. Da qui l’emergenza salari, contro cui in queste ore la Cgil è scesa in piazza a Roma per chiedere delle risposte al governo.
Salari in picchiata
Il vero indicatore è il salario reale, ovvero il salario corretto in base ai prezzi. Secondo i dati dell’Ocse, l’Italia è uno dei Paesi industrializzati in cui i salari reali sono diminuiti di più nell’ultimo anno, registrando una flessione di ben il 7,3%. Non una novità, considerando che, già tra il 1990 e il 2020, sempre secondo l’Ocse, i salari reali in Italia erano scesi del 2,9%. In altre parole, l’alta inflazione causata dalla guerra in Ucraina e dalla ripresa post-Covid sta aggravando un problema strutturale preesistente. Tuttavia, per comprendere appieno la situazione, è necessario introdurre un terzo elemento: la produttività. Essa rappresenta la quantità di prodotto che può essere generata nell’unità di tempo. Considerando due fabbriche che producono prodotti identici in termini di qualità, se nella prima ogni lavoratore produce due oggetti all’ora, mentre nella seconda ne produce tre, è evidente che la seconda fabbrica è più produttiva e avrà quindi bisogno di meno dipendenti per ottenere la stessa quantità di prodotto. Ciò si tradurrà in costi inferiori con la possibilità di offrire salari più elevati.
Ecco, in Italia la produttività è stagnante dal 1990, e di conseguenza anche i salari reali hanno smesso di crescere. Secondo Eurostat, tra il 2000 e il 2020, la produttività media in Italia è aumentata solo dello 0,33% all’anno, mentre in Germania è stata dell’1% e in Francia dello 0,94%. Questo era un problema già esistente prima dell’attuale ondata inflazionistica, ma ora è diventato ancora più urgente. L’aumento della produttività consentirebbe di aumentare i salari senza dover aumentare immediatamente i prezzi, evitando così una spirale pericolosa di aumento dei prezzi e dei salari.
IL CASO DEI CONTRATTI DA FAME NELLA VIGILANZA
Fortunatamente, in Italia, nonostante la stagnazione della produttività, la temuta spirale prezzi-salari non si è mai verificata grazie a un sistema di contrattazione collettiva introdotto nel 1993 che non tutela però tutte le categorie di dipendenti, come chi lavora nei servizi dove gli aumenti salariali sono spesso minimi. Ciò rappresenta una sfida significativa, come dimostrato dal settore della vigilanza, in cui il contratto nazionale prevede salari di soli 5,37 euro all’ora, ben al di sotto dei 9 euro che l’opposizione vorrebbe come salario minimo. A tal riguardo proprio a Torino qualcosa si è mosso. Il ricorso presentato dall’avvocato Roberto De Guglielmi, nei riguardi di Angelo Massolini, addetto alla sicurezza di un supermercato assunto con un contratto collettivo che gli consente di guadagnare appena 950 euro lordi (circa 700 netti), è stato accolto in Cassazione. Un evento che non si era mai verificato prima in Italia. Ma la strada verso un salario “dignitoso” di 1.200 euro è ancora lunga.
L'ALLARME INFLAZIONE
La situazione è preoccupante perché se l’inflazione continua a erodere i salari reali, l’intera economia ne risentirà considerando che il 60% del Pil Italiano è influenzato dai consumi interni. E se il potere d’acquisto delle retribuzioni continua a diminuire rapidamente, ciò avrà un impatto significativo sull’economia nel suo complesso. Questo è particolarmente rischioso oggi, dato che la domanda interna non può essere compensata da un aumento delle esportazioni, considerando il rallentamento dell’economia tedesca e cinese, con cui siamo strettamente collegati.
Molti paesi europei hanno istituito comitati per la produttività sin dal 2016 ma non l’Italia. Il Cnel ha presentato la sua candidatura per diventare la sede dove elaborare proposte concrete in tal senso, ma il problema della produttività nel nostro Pese non è ancora stato affrontato seriamente.
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