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La scoperta
15 Aprile 2025 - 23:20
Non solo controller e joystick. Dietro le chat di Call of Duty e Assassin’s Creed si nascondeva ben altro che partite tra amici. I clan Troncone e Frizziero, due storiche famiglie della camorra napoletana, avevano trasformato le conversazioni ingame del PlayStation Network in uno strumento di comunicazione criptato, praticamente impermeabile alle intercettazioni. Un trucco degno di un thriller cibernetico, scoperto dai carabinieri del nucleo investigativo di Napoli nell’ambito di un’indagine che oggi ha portato a nuove accuse e arresti, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia (pm Prisco, procuratore aggiunto Amato).
L’idea – spiegano gli inquirenti – potrebbe essere nata osservando le tecniche usate nel terrorismo internazionale: le piattaforme videoludiche sono protette da elevata crittografia, hanno server decentrati e l’accesso ai contenuti è così difficile da mettere in crisi perfino un giudice. Così, mentre all’apparenza i boss sembravano semplici videogiocatori, in realtà gestivano traffici, imbastivano accordi e mantenevano i contatti tra detenuti e affiliati.
A far emergere il sistema è stata un’intercettazione telefonica risalente al 15 maggio 2020. Giuseppe Troncone, figlio del boss Vitale, racconta al padre di aver appena chattato tramite PlayStation con Mariano Frizziero, figura apicale dell’altro clan. I due, per eludere ogni controllo, utilizzavano soprannomi: Frizziero veniva chiamato “zia Maria”. Quando Vitale chiede di mettersi in contatto con lui tramite console, il figlio prova a eseguire ma “zia Maria” risulta offline. È l’inizio di un filone d’indagine che, secondo gli inquirenti, dovrà entrare nel bagaglio investigativo di chi si occupa di criminalità organizzata tanto quanto di terrorismo.
Ma le rivelazioni non si fermano al fronte digitale. L’indagine ha anche svelato un sistema di riciclaggio attraverso il noleggio di natanti intestati fittiziamente. I fondi? Proventi di contrabbando e spaccio. I carabinieri hanno sequestrato le imbarcazioni e disposto il divieto di esercizio dell’attività imprenditoriale per la titolare della società coinvolta, con sede a Nisida. In questa rete spunta anche un agente della Polizia Penitenziaria, marito della titolare e sospettato di aver agito da intermediario.
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