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Moriva il 29 aprile 1975 dopo giorni di agonia
29 Aprile 2025 - 08:21
Sergio Ramelli
La sera del 13 marzo 1975, il giovane Sergio Ramelli, diciottenne milanese, stava tornando a casa dopo una giornata come tante. In quegli anni cupi e violenti, segnati dal terrorismo politico che sconvolgeva l’Italia, non immaginava di essere finito nel mirino di un odio che sarebbe culminato in una tragedia indelebile nella memoria nazionale. La sua unica “colpa” era stata quella di aver espresso liberamente le sue idee politiche in un semplice tema scolastico. Questo tema, in cui Sergio criticava apertamente le Brigate Rosse per l’uccisione di due militanti del Movimento Sociale Italiano (MSI), fu l’innesco di una spirale d’odio implacabile. Quel tema, scritto in piena innocenza, fu affisso sulla bacheca dell’Istituto Tecnico Molinari di Milano da alcuni suoi compagni, identificandolo così pubblicamente come “fascista”. Da quel momento, iniziò una campagna feroce di intimidazioni, insulti, minacce e aggressioni fisiche nei suoi confronti, nel totale silenzio e nell’indifferenza di professori e autorità scolastiche. Sergio veniva quotidianamente vessato, emarginato e insultato: la sua stessa famiglia subiva pressioni e angherie, vittima anch’essa di una persecuzione spietata. Milano, come tutta Italia, era immersa negli “anni di piombo”, periodo storico terribile che vide le formazioni dell’estrema sinistra esercitare la violenza più sordida e bestiale non solo contro chiunque osasse contrapporsi alle loro azioni ma anche contro chi pacificamente non condivideva le loro idee.
In un clima sempre più avvelenato, appoggiato da comportamenti omertosi se non conniventi dei media nazionali e di parte della magistratura, si poteva gridare nelle assemblee studentesche e nei cortei che “Uccidere un fascista non è reato”. Le squadre di mazzieri dell’estrema sinistra, autonominatesi con comica ipocrisia “servizio d’ordine”, aggredivano con ferocia nelle strade delle città forze dell’ordine e avversari politici. Non erano rari gli episodi di sangue, le aggressioni selvagge, i morti innocenti. Sergio Ramelli rappresenta ancora oggi uno dei casi più atroci e vergognosi di questo oscuro periodo. Quella sera di marzo, il commando che colpì Sergio era composto da militanti di Avanguardia Operaia. Armati con chiavi inglesi Hazet 36 pesanti quattro chili, attesero Sergio sotto casa sua in via Paladini. Quando lo videro, gli piombarono addosso e, senza alcuna pietà, lo colpirono brutalmente alla testa più e più volte. La violenza fu tale che Sergio rimase agonizzante sul marciapiede in una pozza di sangue, sotto gli occhi sgomenti e disperati dei suoi familiari accorsi immediatamente. Seguirono giorni drammatici: il giovane, ricoverato d’urgenza, restò sospeso tra la vita e la morte per ben 47 lunghissimi giorni, finché il 29 aprile 1975, spirò. Oggi si rimane attoniti e increduli a sentire questa storia; eppure quando giunse in pieno consiglio comunale a Milano la notizia della morte di Ramelli, scoppiò un fragoroso applauso di giubilo e di gioia di tutti i consiglieri comunali, tranne ovviamente di quelli del MSI (ma anche qualcuno del Pci) che rimasero esterrefatti e in lacrime.
Applaudì anche il sindaco socialista Aldo Aniasi. La città di Milano, presunta “capitale morale”, con i suoi degni rappresentanti politici aveva dato questo spettacolo indegno a tutta la nazione. La parte sana dell’Italia rimase attonita, non si capacitava di come l’odio politico avesse potuto generare tanta violenza su un ragazzo poco più che adolescente. La giustizia, però, tardò ad arrivare e mostrò tutte le sue falle. Solo molti anni dopo, gli assassini, figli della borghesia, furono individuati, processati e condannati. Ma le sentenze apparvero incredibilmente miti rispetto alla gravità del crimine: inizialmente l’omicidio fu considerato preterintenzionale, con pene di appena 15 anni. In seguito, fu riconosciuta la volontarietà del delitto, ma ancora una volta, tra riduzioni, condoni e benefici vari, molti responsabili tornarono presto in libertà, lasciando un amaro senso di ingiustizia nelle vittime e nell’opinione pubblica. Loro sono diventati “rispettabili”, si fa per dire, medici e professionisti ed hanno avuto una vita lunga e piena di soddisfazioni. Il povero Sergio, morto ammazzato come urlavano i compagni: “Ci piace Ramelli con la riga rossa nei capelli, in un cimitero con i suoi genitori morti di crepacuore”.A mezzo secolo dalla morte, la figura di Sergio Ramelli, per qualche ormai suonato reduce degli anni di piombo, continua a dividere e far discutere. Per molti anni, il suo nome fu quasi censurato dal dibattito pubblico, come se il ricordo di un ragazzo innocente assassinato per motivi politici fosse scomodo da ammettere. Eppure, negli ultimi decenni, la memoria è tornata con forza a chiedere verità e giustizia per Sergio, trasformandolo in un simbolo potente di innocenza contro le omissioni dei “giornaloni”, la sopraffazione ideologica, l’odio e la violenza politica.
Oggi, in molti comuni d’Italia, da Nord a Sud, il nome di Sergio Ramelli campeggia su strade, piazze e giardini. Questi luoghi rappresentano la volontà di non dimenticare, il rifiuto dell’oblio, l’affermazione che nessuna ideologia, per quanto umana possa sembrare, può giustificare l’omicidio, la violenza e la persecuzione di chi esprime idee diverse. La storia di Sergio viene ricordata nelle scuole, nelle conferenze, attraverso libri e opere teatrali come quelle di Giuseppe Culicchia e Nicola Rao, che hanno raccontato senza retorica la storia struggente di questo giovane martire. Eppure, ancora oggi, c’è chi preferirebbe tacere, far finta di niente, dimenticare, come se far sparire la memoria potesse cancellare anche la vergogna per quella violenza assurda e ingiustificabile. Ma ricordare Sergio Ramelli significa molto più che commemorare un giovane innocente ucciso brutalmente. Significa soprattutto affermare con forza i valori di libertà e democrazia, il rispetto per l’altro e per le sue idee, significa rifiutare ogni forma di odio e sopraffazione. Sergio Ramelli non è più soltanto il ragazzo massacrato sotto casa: è diventato un simbolo di pace, di giustizia, di civiltà e di umanità. A distanza di cinquant’anni, la sua storia ci obbliga a riflettere sulla fragilità della convivenza civile e sulla necessità di vigilare continuamente affinché simili tragedie non si ripetano mai più. Sergio, nel suo sorriso appena accennato nelle fotografie d’epoca, rappresenta ancora oggi una domanda aperta rivolta a ciascuno di noi: fino a dove può arrivare l’odio? E quanto valore diamo realmente alla libertà e al rispetto delle idee degli altri? Il ricordo di Sergio Ramelli deve essere sempre vivo: il suo sacrificio deve essere monito e insegnamento permanente contro ogni forma di violenza e odio ideologico. Egli è il simbolo luminoso della lotta contro l’indifferenza e la barbarie ideologica che ha armato la mano dei suoi assassini.
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