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L'editoriale

L’interesse nazionale sul banco degli imputati

Caso Almasri: il governo sfida i giudici, ecco cosa sta succedendo davvero

L’interesse nazionale sul banco degli imputati

Il ritorno in Libia di Najeem Osama Almasri

C’è un punto, nel caso Almasri, che chiarisce meglio di qualsiasi editoriale la natura dello scontro: la scelta tra l’applicazione meccanica della procedura e la tutela immediata dell’interesse nazionale. Najeem Osama Almasri - alto ufficiale libico accusato dalla Corte penale internazionale di crimini gravissimi - viene arrestato a Torino, dopo aver scorrazzato impunito per l’Europa, sulla base di un mandato dell’Aja, scarcerato dalla Corte d’appello di Roma e riaccompagnato in Libia con un volo di Stato. È l’innesco dell’attuale contesa tra un pezzo di magistratura inquirente e l’esecutivo, oggi chiamato a rispondere davanti al Tribunale dei ministri. Le ore piemontesi dell’arresto restituiscono una cornice più netta: spostamenti, contatti, perfino il sequestro di un’ottica da fucile in hotel. Non pettegolezzi: atti oggi confluiti nella relazione del Tribunale dei ministri che chiede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Piantedosi, Nordio e Mantovano. È su quel tracciato che si innesta l’indagine che ha acceso il conflitto istituzionale. La difesa politica della decisione è nota e, soprattutto, pubblicamente rivendicata. Nell’ultima intervista al TG5, Giorgia Meloni ha fissato il perimetro: «Considero surreale la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano, che hanno agito nel rispetto della legge, per tutelare la sicurezza degli italiani».

La premier parla anche di un «disegno politico» dietro alcune decisioni giudiziarie. Non sono sfoghi, ma un atto d’accusa: la contestazione non è solo penale, è politica. Qual è il cuore del ragionamento governativo? Che in quel frangente lo Stato si sia trovato davanti a un rischio concreto e immediato: la possibilità di ritorsioni contro i cittadini e gli interessi italiani in Libia. È lo stesso crinale argomentativo che emerge dalle ricostruzioni ufficiali: la scelta del rimpatrio, scrive l’esecutivo, è stata determinata da uno stato di necessità. In altre parole: la politica si assume la responsabilità di evitare un danno maggiore. Ma la Procura di Roma non si è fermata a prendere atto. Ha ipotizzato reati (tra cui il sequestro di persona) e il Tribunale dei ministri ha imboccato la via dell’autorizzazione a procedere. La dinamica è nota: nel mezzo, l’archiviazione della posizione di Meloni e il passaggio parlamentare che dovrà giudicare se gli indagati abbiano agito nell’interesse dello Stato. Una partita a carte scoperte tra poteri, con un precedente che peserà. Non è un episodio isolato. Il contesto è quello della riforma della giustizia, con la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici in avanzata discussione parlamentare. È inevitabile che ogni attrito venga letto come un movimento di faglia tra chi vuole ridefinire l’equilibrio dei poteri e chi difende l’assetto vigente. In Senato, i lavori sulla riforma procedono, tra proteste e contrappesi, mentre fuori dall’Aula il caso Almasri polarizza il discorso pubblico. Nel mezzo, la politica estera reale -- quella delle relazioni con Tripoli, della sicurezza energetica, del controllo dei flussi migratori - fa capolino nelle carte. È qui che si collocano le parole del viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, che in più sedi ha ricordato l’impatto potenziale di una detenzione prolungata del generale: una scelta capace di destabilizzare la Libia e ripercuotersi sui nostri concittadini e sui dossier strategici del Paese. Un ragionamento che oggi, anche nell’intervista citata dal Corriere, viene riproposto nel segno dell’interesse nazionale. Il punto, per chi guarda con lenti istituzionali, non è “assolvere” o “condannare” ex ante: è chiarire chi risponde di che cosa. Se la magistratura inquirente può sottoporre a sindacato penale una decisione politica assunta con il dichiarato obiettivo di tutelare vite italiane e asset strategici, la linea di demarcazione tra responsabilità politica e responsabilità giudiziaria diventa evanescente. E quando la linea svanisce, a perdere non è un governo: è la funzionalità della democrazia parlamentare.

Il parallelo storico viene facile ma non è ozioso: l’Italia conosce già le stagioni in cui l’onda giudiziaria ridisegna i confini della politica. La novità, oggi, è che il terreno di scontro non è la corruzione sistemica, ma la sicurezza nazionale. Qui la pretesa di una “giustizia che sostituisce la politica” non è soltanto uno slogan polemico: diventa un’ipotesi di commissariamento delle scelte strategiche. E se ogni decisione di governo può essere neutralizzata in istruttoria, l’elezione perde la sua forza trasformativa. Dall’altra parte, nessuno chiede - né potrebbe - l’immunità penale dell’Esecutivo. Il controllo di legalità è un presidio, non un orpello. Ma l’equilibrio si regge su una distinzione chiara: chi accusa non giudica, chi governa risponde al voto e al Parlamento. È esattamente il terreno della riforma: separare carriere e funzioni non per limitare i magistrati, ma per proteggere la terzietà del giudice e ridurre l’ambiguità di un pubblico ministero che, in Italia, continua a essere parte del medesimo ordine. Ed è qui che il discorso si fa netto: se un magistrato può trasformarsi in arbitro politico, allora il suffragio universale diventa un rito inutile. Se le decisioni strategiche vengono rimesse alla lente di chi non ha mai chiesto un voto, la democrazia si svuota dall’interno. Non è un dibattito tecnico: è una questione di sovranità. Il governo risponde ai cittadini, la magistratura alla legge. Quando i ruoli si confondono, vince il potere che non si sottopone mai alle urne. E quel potere, oggi, ha la toga addosso.

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