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L'editoriale

Quando tutti diventano “ragazzi”: il linguaggio che assolve

Dalla cronaca nera alla politica, l’uso distorto delle parole per sfumare le responsabilità e sminuire i reati

Quando tutti diventano “ragazzi”: il linguaggio che assolve

Un tempo, le tappe della vita avevano nomi chiari. Si era bambini fino alle elementari, ragazzi fino a vent’anni, poi giovani uomini e giovani donne. Oggi, invece, il lessico giornalistico e politico sembra essersi appiattito: si è ragazzi praticamente per sempre. A quarant’anni, persino con precedenti penali, si è ancora “un ragazzo di quartiere”, magari “sfortunato” o “con una vita difficile”. Un’etichetta che, sotto la patina dell’affetto, è in realtà un artificio linguistico con effetti profondamente distorsivi. La cronaca recente abbonda di esempi. A Milano, due dodicenni e un tredicenne, rom, su un’auto rubata, hanno travolto e ucciso una donna, poi sono fuggiti. Nei titoli dei giornali? “Bambini in fuga”. A Torino, due giovani uomini, di origine magrebina, hanno aggredito e mandato in ospedale due controllori della metropolitana, colpevoli di aver chiesto di esibire il biglietto: anche qui, per la stampa, “ragazzi violenti”. Un lessico che funziona come un balsamo semantico, capace di stemperare la gravità del fatto e insinuare, sotto traccia, una scusante.

È un meccanismo antico, che trova eco nel “È nu guaglione” napoletano: un modo per minimizzare, per giustificare il comportamento di chi “ha sbagliato” ma, in fondo, “è ancora giovane”. Solo che qui la giovinezza è elastica come una gomma da masticare: si estende fino a inglobare adulti fatti e finiti. Persino cronache di uomini di quarant’anni coinvolti in risse, furti o aggressioni li definiscono “ragazzi”, quasi si parlasse di una scorribanda adolescenziale. Il fenomeno non è casuale. L’Italia è un Paese anziano, demograficamente e culturalmente: in un contesto dove l’età media supera i 45 anni, forse un quarantenne appare davvero “giovane”. Ma c’è di più. La scelta delle parole in cronaca è spesso figlia di una cultura che teme la precisione, soprattutto quando può urtare la sensibilità di qualche gruppo o finire nel mirino delle polemiche sui social. Qui entra in gioco un certo conformismo linguistico, alimentato dalla cosiddetta ideologia woke, che impone termini neutri, rassicuranti, meno “stigmatizzanti”. E così, laddove un tempo si sarebbe parlato di “uomo” o “giovane uomo” per un venticinquenne, oggi si opta per “ragazzo”, magari corredato da aggettivi che spostano l’attenzione dal reato alla sua condizione sociale: “ragazzo disoccupato”, “ragazzo in difficoltà”, “ragazzo di periferia”. L’effetto? La responsabilità individuale si dissolve in un alone di comprensione preventiva.

Questo abuso linguistico non è innocuo. La parola “ragazzo” non è neutra: porta con sé una connotazione di freschezza, inesperienza, potenziale non ancora realizzato. Applicarla a chi è pienamente adulto significa alterare la percezione dei fatti, spostando il giudizio morale dal gesto all’età presunta. In alcuni casi, l’operazione è persino funzionale a narrazioni politiche o mediatiche: attenuare le colpe, stemperare le tensioni, evitare che certe categorie sociali vengano percepite come problematiche. Il linguaggio è potere, e chi lo controlla può ridefinire la realtà. Continuare a chiamare “ragazzi” uomini di trent’anni, o bambini i dodicenni autori di atti gravissimi, non è un vezzo stilistico: è una scelta culturale, che finisce per privare le parole della loro precisione e i fatti della loro chiarezza. Le cronache non hanno bisogno di indulgenza semantica: hanno bisogno di nomi esatti, perché solo così i cittadini possono comprendere la realtà senza filtri. E se la verità fa male, peggio sarà quando ci accorgeremo che a farci male non sono stati “i ragazzi”, ma gli uomini.

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