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L'editoriale
05 Ottobre 2025 - 06:00
L’Italia, ancora una volta, si è distinta non per lungimiranza ma per provincialismo. Uno sciopero politico, proclamato da due sole sigle – CGIL e USB – ha bloccato, nelle grandi città, ospedali, trasporti, servizi pubblici. Un Paese intero ridotto in ostaggio, mentre Cisl, Uil e i sindacati autonomi si sono ben guardati dall’aderire, segnalando con chiarezza che questa non era una battaglia sindacale ma una manifestazione ideologica. Eppure la narrazione mediatica, ossessiva e monocorde, ha trattato i promotori come se rappresentassero la totalità del mondo del lavoro e dell’intera nazione. In piazza, i cortei non sono stati soltanto cortei. Sono diventati terreno fertile per attivisti violenti, per i soliti professionisti dell’assalto, quelli che dietro lo slogan umanitario cercano il pretesto per incendiare le strade. Non una parola, da CGIL o USB, per prendere le distanze da chi lancia fumogeni, danneggia vetrine o assedia le sedi istituzionali. Un silenzio assordante che diventa legittimazione. Chi non condanna, tollera; chi non prende le distanze, finisce per esserne complice. Il pretesto immediato dello sciopero? La “flottiglia umanitaria”: qualche barca a vela partita con la dichiarata intenzione di “portare aiuti a Gaza”, in realtà con un atto politico costruito a tavolino per forzare il blocco israeliano. Una messinscena che i media italiani hanno seguito per ore, tra dirette TV, interviste, talk show infiniti.
Nel frattempo, i grandi giornali internazionali – dal New York Times al Financial Times, dal Le Monde al The Guardian – ignoravano completamente la vicenda, trattandola per quello che era: una marginale provocazione simbolica. Solo da noi, nel nostro eterno complesso di inferiorità, un pugno di velisti è stato narrato come l’epopea di eroi popolari. Una messinscena che i media italiani hanno seguito per ore, tra dirette TV, interviste, talk show infiniti. Nel frattempo, i grandi giornali internazionali – dal New York Times al Financial Times, dal Le Monde al The Guardian – ignoravano completamente la vicenda, trattandola per quello che era: una marginale provocazione simbolica. Solo da noi, nel nostro eterno complesso di inferiorità, un pugno di velisti è stato narrato come l’epopea di eroi popolari. Nessuno, nei cortei, ha ricordato un dato elementare: Hamas, che governa Gaza, è un movimento che nell’articolo 7 del proprio statuto invoca l’uccisione degli ebrei. Non degli israeliani, ma degli ebrei. Un linguaggio genocidario che non ammette equivoci. Eppure CGIL e USB non hanno mai sentito la necessità di una condanna esplicita. Lo stesso silenzio che già avevamo notato a sinistra nei giorni successivi al 7 ottobre, quando il mondo era rimasto attonito davanti ai massacri di civili compiuti dai miliziani palestinesi di Hamas. Non una parola su quel piano di pace promosso dall’amministrazione Trump, accettato da Israele e da diversi Paesi arabi, e rifiutato da Hamas. Nei cortei si è preferito imputare, incredibilmente, al governo italiano la complicità con Israele, come se la politica estera fosse un derby calcistico e non una questione di equilibri strategici.
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C'è chi mi chiama "Il Direttore Tatuato". Inchiostro sulla pelle e inchiostro di giornale, elettronico per il Web. Per raccontare i tatuaggi, i segni visibili e le cicatrici nascoste di Torino, attraverso la cronaca, l'economia, la politica. Seguitemi, ne parleremo insieme
Il punto politico è chiaro: questo sciopero non porterà un solo voto in più alla sinistra. Al contrario, rafforzerà il centrodestra. Lo abbiamo già visto nelle Marche e lo vedremo di nuovo in Calabria: anche gli elettori moderati di sinistra, quelli che fino a ieri si riconoscevano in un partito riformista, non tollerano più l’idea di un Partito Democratico trascinato da Elly Schlein verso il campo largo a rincorrere Giuseppe Conte. Un campo che non è largo, ma ristretto, intriso di becero giustizialismo e di triti slogan terzomondisti contro l’Occidente che parlano più a Telegram che alle piazze italiane. Schlein, convinta che i disagi di uno sciopero generale avrebbero galvanizzato il consenso, non ha compreso che gli italiani – persino quelli con radici sindacali – non perdonano chi blocca ospedali e trasporti per motivi politici. In tempi di precarietà diffusa, lo sciopero come arma di testimonianza ideologica appare una provocazione insopportabile. Il voto di protesta, inevitabile, finirà per alimentare proprio quei partiti che la segretaria del PD vorrebbe marginalizzare. In questa cornice, c’è un ulteriore aspetto che merita attenzione: gli attacchi alle aziende strategiche italiane, come Leonardo, colosso dell’aerospazio e della difesa. Non si tratta di improvvisazioni. Ogni volta che un gruppo di sedicenti pacifisti prende di mira Leonardo, o prova ad assaltare un aeroporto, risuona in sottofondo l’eco della propaganda russa. Mosca ha tutto l’interesse a destabilizzare l’Occidente, a colpire i simboli dell’industria della difesa, a creare incertezza. E questi manifestanti, con la loro furia stupida e cieca, diventano involontariamente gli utili idioti di Putin: manovalanza inconsapevole al servizio dell’autocrate che ha invaso l’Ucraina. Il vero dramma, però, è il provincialismo che emerge da ogni piega di questa vicenda. Un provincialismo sindacale, che trasforma un tema internazionale complesso in una passerella di slogan. Un provincialismo politico, che pensa di ricostruire la sinistra italiana brandendo la kefiah e insultando le aziende strategiche.
Un provincialismo mediatico, che eleva a epopea nazionale la vicenda di qualche vela diretta a Gaza, mentre il resto del mondo la ignora. La piccolezza provinciale di chi assalta a Torino le OGR, il luogo dove si parla di futuro e innovazione con i grandi del mondo come Bezos e Von der Leyen, e che sono gli stessi delle posizioni e degli assalti di retroguardia ideologica contro l’alta velocità. Stesse mani e stesse teste: poco pensiero e tanta azione per i coccoli dell’amministrazione comunale di Torino. L’Italia rimane l’unico Paese europeo dove uno sciopero politico riesce a bloccare i servizi essenziali. Un primato di cui non andare fieri. In Francia, in Germania, in Spagna, anche le proteste più dure non hanno mai messo a rischio ospedali e trasporti. Da noi sì. Segno che lo sciopero diventa strumento di ricatto e non di rappresentanza. Lo sciopero del 3 ottobre – perché di questo si tratta, una data da ricordare – non passerà alla storia per le conquiste sindacali, ma come l’ennesima rappresentazione della debolezza della sinistra italiana. Un’opposizione incapace di condannare la violenza, reticente di fronte al terrorismo, prona a logiche di piazza che non spostano consenso ma lo erodono. Il Paese reale, quello che lavora, viaggia, manda i figli a scuola, ha visto in queste ore solo un ostacolo in più. Non dimenticherà facilmente chi lo ha costretto a fermarsi per una flottiglia di vela e uno slogan ideologico. È un copione già scritto: la sinistra estrema radicalizza, la sinistra moderata abbandona, il centrodestra raccoglie. E l’Italia rimane prigioniera della propria provincia politica, mentre il mondo intorno corre.
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