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19 MARZO
19 Marzo 2025 - 06:32
Giovanni D'Alfonso con Bruno
Cinquant’anni alla ricerca della verità. Era il 5 giugno del 1975 quando l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso veniva assassinato durante lo scontro a fuoco con le Brigate Rosse che il giorno prima avevano sequestrato Vittorio Gancia: il giovane era stato portato ad Acqui Terme ed era tenuto prigioniero dentro Cascina Spiotta d’Arzello. Da quel giorno è trascorso mezzo secolo e oggi, in occasione della Festa del Papà, il figlio di Giovanni, Bruno D’Alfonso, si lascia andare a un dolce e amaro ricordo sul padre.
Giovanni detto “Nino” nasce a Penne, in provincia di Pescara, il 7 febbraio del 1930. A 18 anni si arruola nell’Arma, viaggia letteralmente in tutta Italia prestando servizio da Trieste a Potenza. A 30 anni torna “al paese”. Una mattina va dal barbiere e rimane colpito da una ragazza in una fotografia: e’ Rachele, per tutti “Adina”, la nipote del coiffeur. Nino chiede udienza a casa della ragazza, vuole presentarsi, chiedere il permesso di corteggiarla «i miei genitori facevano lunghissime passeggiate davanti al mare» racconta Bruno. Un anno dopo, il carabiniere sposa la sua innamorata. Nel 1962 nasce Cinzia, due anni dopo Bruno e e nel ‘73 arriva Sonia.
L’appuntato D’Alfonso, che padre era?
«Un uomo che amava la sua famiglia, marito e padre presente e protettivo. Avevo 10 anni quando lo hanno ammazzato, il ricordo di papà è nitido nella mia mente. Mi portava spesso con lui, quando aveva i turni d’ufficio in caserma. E mi mettevo lì, alla scrivania, alla macchina da scrivere: quei giorni hanno sicuramente impattato tanto sulla mia vita». (Bruno D’Alonso è un giornalista de Il Messaggero, ndr).
E nell’ambiente militare, come percepivano Giovanni?
«Lo chiamavano “avvocaticchio”, era uno che non esitava a parlar, ed era molto bravo a farlo. Aveva un’istruzione superiore: in quel periodo i marescialli avevano la quinta elementare, la sua cultura era rara da trovare nei militari. Per me papà era un eroe. Sempre ligio al dovere, votato alla giustizia».
Quanto ha influito su di Lei la figura di suo padre?
«Tantissimo. Sono stato un adolescente arrabbiato: la morte di mio padre non solo è stata un vero mistero per diverso tempo, ciò che mi ha fatto più male è stato vedere il dopo...».
Possiamo approfondire?
«Quel 5 giugno papà era libero da lavoro. Lo richiamò in servizio il tenente Umberto Rocca. Avevano ricevuto la soffiata per cui sapevano che dentro la cascina c’era Vittorio Gancia, così Rocca improvvisò una squadra di carabinieri. Molti di loro erano alla Festa dell’Arma, ricorrenza che si tiene il 5 giugno».
E chiamò anche Giovanni...
«Esatto, che alle 12 sarebbe dovuto partire per raggiungerci. Ma non arrivò mai. Abbiamo appreso della sua morte attraverso il telegiornale. Per aver chiara la dinamica ci sono voluti anni. Mio padre venne ferito, tuttavia sparò due colpi a Mara Cagol: uno al polso e uno alla schiena. Così ne rallentò la fuga: fu un altro carabiniere a sparare il colpo che l’ha uccisa. Ecco, in quel frangente, Rocca e un altro carabiniere, feriti, stavano allontanandosi rotolando giù da un dirupo. Papà, nonostante fosse stato a sua volta colpito, non si nascose. Dopo aver sparato alla moglie di Renato Curcio, la cagol appunto, venne raggiunto da alcuni colpi di pistola dai brigatisti. Morì in ospedale, sei giorni dopo, un’agonia straziante per tutti noi. A mio padre venne data una medaglia d’argento al Valor Militare "alla memoria": a Rocca, rimasto offeso nello scontro a fuoco, diedero quella oro...Mia madre non volle ritirare l’onorificenza. Si sentiva, giustamente, offesa. Rocca era più alto di grado, ma mio padre in quello scontro ci è morto.
Successivamente vi viene consegnata un’altra medaglia, stavolta oro...
«Come vittima al terrorismo. E a papà è stata intitolata la caserma dei Carabinieri di San Valentino in Abruzzo Citeriore».
E Lei stesso, da adulto, sceglie di servire l’Arma...
«Perennemente combattuto tra la voglia di verità sul caso e quel senso di giustizia che mi ha trasmesso mio padre...».
Oggi Giovanni non c’è più e Lei, nel frattempo, è diventato papà...
«Si, di Paride Giovanni. Mio figlio ha 30 anni e suo nonno è una figura che, in qualche modo, lo ha influenzato».
Come nel caso del concerto della P38 a Pescara...
«Fu mio figlio ad accorgersi dei riferimenti della band: inneggiavano alle Brigate Rosse. Denunciammo, annullarono il concerto, io e mio figlio venimmo minacciati per mesi».
Veniamo ai giorni nostri...
«La verità è vicina. Il caso è stato riaperto e finalmente sembra che sia stato individuato chi ha sparato. Ma questo non mi ridarà il tempo che mi è stato negato con mio padre, nè le notti insonni...».
Da cosa deriva principalmente la sua rabbia?
«Qualcuno ha insabbiato i fatti: perchè? Perchè l’Arma non ha svolto le indagini come doveva, all’epoca? Io credo nei carabinieri, ma non dimentico come sono andate le cose. La gente sa chi era Giovanni D’Alfonso solo perchè in quella data è morta Mara Cagol, la moglie del boss delle Brigate Rosse».
Oggi è la Festa del Papà. Potesse riavere il Suo per un minuto, cosa gli direbbe?
«Sono passati 50 anni dalla tua morte e io oggi penso di farti il regalo più bello. Quella per la verità sulla tua morte è una lotta che dura da decenni. Sei stato lontano da me ma solo fisicamente, in quanto in questi anni sei sempre stato dentro di me e tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto nel tuo nome e in tuo onore».
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