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Il caso
12 Settembre 2025 - 08:45
«Se lo sfogo d’ira dell’imputato viene correttamente inserito nel suo contesto, potrà essere ricondotto alla logica delle relazioni umane». È in questa frase – estratta dalle motivazioni di una sentenza – che si concentra la miccia accesa intorno al caso di Lucia Regna, ex moglie, vittima di un’aggressione violenta nel luglio 2022. Secondo la Procura, per anni Lucia sarebbe stata insultata, minacciata, spintonata, spesso davanti ai figli. Ma per il tribunale di Torino – collegio presieduto da Paolo Gallo, a latere Elena Rocci e Giulia Maccari – non c’è stato reato di maltrattamenti. Solo un episodio di lesioni personali. Isolato. Contestualizzabile. Una lettura che ha scatenato polemiche e – sul piano politico – portato all’intervento della deputata Augusta Montaruli (FdI), che ha chiesto alla commissione parlamentare sul femminicidio di acquisire gli atti del processo di primo grado: «Non possiamo permettere che cali la fiducia delle donne nel denunciare – ha dichiarato –. Se questo è il ruolo assunto dai giudici, la commissione ha il dovere di verificare». È il 2021 quando la donna, dopo diciassette anni di matrimonio, comunica la volontà di separarsi con un messaggio su WhatsApp. Da quel momento, racconta lei, «si scatena l’inferno»: urla, insulti, accuse («pu**ana», «cattiva madre» per citarne alcuni), un clima che la Regna definisce soffocante. Ma per i giudici si tratta di un «linguaggio scurrile» maturato dentro «l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica». La linea è sottile. E il diritto pretende precisione: il reato di maltrattamenti si configura, spiegano le motivazioni, quando le condotte violente sono reiterate e ledono sistematicamente la dignità della vittima. Qui, invece, “fino al 28 luglio 2022, nulla di penalmente significativo si è verificato”. Quel giorno, però, succede. Il marito – difeso dall’avvocato Giulio Pellegrino – colpisce la donna con un pugno al volto, dopo averla presa a calci. Ferite, problemi di vista, un’aggressione confermata anche dalla sentenza. Per quella, arriva la condanna: un anno e sei mesi per lesioni personali, pena sospesa con la condizionale. Secondo i giudici, quel gesto è maturato in un «contesto di comportamenti non ineccepibili della vittima», e «alimentato da una specifica condizione di stress». Per questo, la violenza viene letta come “unicum” – un episodio isolato, non un’abitudine. Una scelta lessicale e giuridica che apre crepe nel muro della fiducia pubblica verso il sistema giudiziario, almeno per chi osserva da fuori. Montaruli ha scritto alla commissione sul femminicidio, chiedendo l’acquisizione degli atti. L’obiettivo – dice Montaruli– è «fare chiarezza sulle indiscrezioni di stampa e sulla reale portata della sentenza», ma anche «verificare se servano strumenti legislativi più solidi per contrastare azioni non giustificabili né comprensibili».
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