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Susan non era Cospito

Perché si continua a morire in carcere?

Dal suicida che nessuno ha visto perché guardavano la tv, alle violenze sugli agenti. Mancano i medici ma abbiamo ben due garanti dei detenuti

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Susan è morta in carcere, mentre era sotto la custodia dello Stato. Come Stefano Cucchi, come Antonio Roddi, vittima di una malattia non curata adeguatamente, come almeno un’altra dozzina di uomini e donne solo qui a Torino, oltre una settantina in tutta Italia, in questo anno 2023. Ed è questo che bisogna capire: come è stato possibile che sia arrivata a lasciarsi morire? Susan rifiutava il cibo e anche le terapie: ma non era una rivendicazione, non era uno sciopero della fame alla Cospito, tanto per intenderci. Il cui caso - con relativa copertura mediatica - era tale da creare una autentica mobilitazione, da quelli sinceramente tesi a salvargli la vita a quegli altri preoccupati solo che la sua morte e le relative conseguenze non ricadessero su di loro. Per Susan non c’è stato nulla di tutto questo. Il suo avvocato era stato avvisato, un medico l’aveva visitata, ma in nessuno di questi passaggi era stata colta la gravità delle sue condizioni, forse. Persino suo marito, tra turni in fabbrica e figli, non aveva avuto tempo di andarla a trovare. Susan, di fatto, moriva nel silenzio generale.

Sulle morti in cella ci sono state e ci sono ancora indagini e processi: per il suicida che non è stato visto mettere in atto il suo piano perché gli agenti guardavano la partita; per quello le cui condizioni di salute non erano più compatibili con il regime carcerario. E ci sono indagini sulle violenze dei detenuti nei confronti del personale; ce ne sono altre sulle violenze di agenti sui prigionieri. Mancano i medici perché sempre meno vogliono lavorare in un penitenziario - giorni fa si è dimesso anche il direttore sanitario. Ci sono i garanti dei detenuti, Torino ne ha ben due, con i loro rapporti e i loro dati. Che nessuno al ministero legge. Soprattutto se non hai i riflettori addosso.

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