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Il Borghese
04 Aprile 2025 - 18:10
L’11 Settembre delle Borse non è legato (solo) ai dazi di Trump: il crollo delle Borse Usa, che a cascata influenzano i mercati mondiali, è iniziato dopo l’annuncio dei controdazi, al 34%, della Cina. Una spiegazione dannatamente efficace di cosa sia davvero una escalation e quali pericoli porti con sé. La guerra, con buona pace di chi invita a evitarla, è già scoppiata. E al momento l’Europa si trova proprio nel mezzo. Mentre la reazione dell’Italia sta in una proposta-appello della premier Giorgia Meloni: bloccare (o rivedere) il cosiddetto Green Deal per l’automotive.
Per dare un'idea di cosa significa “11 Settembre delle Borse”, bisogna dare un’occhiata agli indici: a Piazza Affari l’indice Ftse Mib, già nella mattinata, era sceso di oltre il 7,5% - arrivando poi a 7,9 -, proprio come il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle. Peggio ha fatto il 24 giugno del 2016, con la Brexit e calo del 12,48%; il 6 ottobre 2008, con il fallimento Lehman Brothers, la flessione è stata dell’8,24%.
Panico degli investitori? Non necessariamente. La paura, al limite: il cosiddetto “indice della paura”, ossia quello della volatilità - ossia quanto in fretta vengono scambiati, soprattutto venduti i titoli -, di Wall Street è andato non a caso ai suoi massimi dopo l’annuncio dei contro-dazi della Cina.
Trump, al momento, gongola di fronte ai risultati di una mossa che potrebbe però portare gli Stati Uniti alla recessione. E se un dollaro debole può essere un vantaggio, una recessione - Morgan Stanley dà la probabilità al 40% - per di più seguita da stagnazione sarebbe un autentico disastro. Anche se si riuscisse ad attirare nel Paese i grandi investitori («È l’ora di arricchirsi» ha detto ieri in televisione il presidente Usa), o a monetizzare da ulteriore vendita di debito pubblico (a proposito: anche l’Europa è tra i detentori di debito pubblico americano), gli effetti come calo dei salari, disoccupazione, rallentamento della produzione e calo dei consumi sarebbero difficilmente di beneficio. E quanto impiegherebbe la recessione ad attraversare l’oceano?
Adesso per i Paesi comincia in realtà la fase negoziale: da qui al 9 aprile, quando i dazi saranno effettivamente applicati, i singoli Paesi o l’Europa a nome dei suoi membri dovranno negoziare i prezzi con gli Stati Uniti. Ed è qui che si arriva alla chiave delle scelte economiche di Trump, forse. Lui dice «Siamo di nuovo in testa», riferendosi al fatto che «tutti ci chiamano». L’economia americana diventa quindi, in una maniera perversa, nuovamente la guida delle economie globali: detta l’agenda, per essere eufemistici.
In Italia si studia quale può essere la risposta dell’Europa, ché ogni singolo stato può al limite dare misure di sollievo (come i 14 miliardi promessi dalla Spagna), ma certo non fare contromosse. La cartina tornasole - volenti o nolenti - per l’Italia (e Torino, anche più dell’export alimentare, dei 600 milioni di euro del comparto vinicolo delle Langhe o del primato di Freisa di Chieri come vino più bevuto dagli americani) è la situazione di Stellantis, con due fabbriche bloccate temporaneamente negli Usa (due poli dell’elettrico, non a caso) e il titolo in caduta libera: ieri a Piazza Affari ha chiuso a 8,9 dopo aver toccato anche 8,4 (e capitalizzazione a soli 25 miliardi): un disastro. Tanto che fra gli investitori ci sono rumors di un possibile aumento di capitale da parte di Exor e Peugeot (Bpi, ossia lo Stato francese dovrà accordarsi) seguito da un pesante buyback (a valori bassissimi).
«Forse dovremo ragionare di sospendere le norme sul Green Deal in tema di automotive, settore colpito dai dazi» ha detto Giorgia Meloni, dove il «noi» intende l’Europa. Che se volesse insistere con il suo piano per distruggere i motori endotermici dovrebbe tentare le alleanze con la Cina. Se non fosse che ha deciso di colpirla con i dazi sulle elettriche (e un certo Tavares aveva messo in guardia su questo: chi di guerra commerciale ferisce...).
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