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il processo

Il diavolo è entrato nella cella dell’Imam: il caso di Salassa e la stanza degli orrori

Khalid Lakhrouti, 36 anni, è morto durante un presunto "esorcismo islamico" il 10 febbraio dell'anno scorso

La "casa degli orrori" a Salassa (nel riquadro, l'imam)

La "casa degli orrori" a Salassa (nel riquadro, l'imam)

Un bottone nella gola, una capra disegnata su un muro, una croce rovesciata dentro una cella. Il processo per l’omicidio di Khalid Lakhrouti, 36 anni, morto a Salassa durante un presunto esorcismo islamico la sera del 10 febbraio 2024. E ora, in un’aula del tribunale di Ivrea, tocca alla giustizia ricomporre l’enigma di una morte. Sul banco degli imputati ci sono tre volti che erano noti alla vittima: lo zio, l’Imam Abdelrhani Lakhrouti; il fratello, Nourddine; e l’ex moglie, Sara Kharmiz. Tutti accusati di omicidio volontario aggravato in ambito familiare. Ma quello che doveva essere un rituale di liberazione, una ruqyah per scacciare il demonio, secondo l’accusa si è trasformato in un’agonia durata ore. E il corpo di Khalid, legato mani e piedi, finito con la gola ostruita da un bottone, diventa la prova più feroce di quella che i magistrati definiscono «una deriva brutale della fede».

All’interno della cella dell’Imam Lakhrouti, detenuto a Brissogne dal 30 marzo 2024, sono stati trovati disegni e scritte inquietanti. Croci rovesciate, il numero 666, capre e figure demoniache. Immagini che nulla hanno a che fare con l’iconografia islamica, come ha sottolineato anche una guardia carceraria in aula: «Simboli mai visti prima dell’arrivo dell’Imam in quella cella». E due frasi, tracciate a mano: «Il peggio male, male ti porti via dalla tua famiglia» e «Che Satana mi punisca...». Elementi che, almeno visivamente, stridono con il ruolo di guida spirituale che lo stesso Imam sembrava ricoprire tra i detenuti, come riferito da chi lavora nel carcere. Il suo avvocato, però, ha ridimensionato: «Quella era una cella di transito, ci passano decine di persone. Quelle scritte potrebbero essere di chiunque». Intanto le immagini scorrevano proiettate in aula. Abdelrhani Lakhrouti ha ripetuto più volte: «io non faccio esorcismi».

Anche l’autopsia parla, e lo fa con crudezza. Nella gola di Khalid è stato trovato un bottone, marchiato Guess, di un modello fuori produzione dal 2015. Sarebbe stato questo a causare l’asfissia, aggravata da legature strette e un corpo immobilizzato. Non una morte per caso, ma una morte cercata, scrivono i periti. E i soccorsi, chiamati solo alle 21.45, quando il corpo era già freddo da ore. Eppure i testimoni raccontano altro. I vicini, i familiari, parlano di rituali ricorrenti, di Khalid legato per non farsi male, di preghiere ad alta voce e urla. E ci sono le intercettazioni. In una telefonata, lo zio dice al fratello della vittima: «Scommetti che troveranno i segni delle legature?». Un tentativo di anticipare l’autopsia, forse. O di preparare una versione da raccontare.

Khalid era un uomo fragile. Lottava con la dipendenza dalla cocaina, con crisi psicotiche che lo facevano sentire posseduto. Sara Kharmiz, ex moglie della vittima, è accusata di concorso in omicidio aggravato. L’avvocata Valeria Cedda ha annunciato che nella prossima udienza saranno sentiti i consulenti medici. Anche per lei, le aggravanti pesano: una su tutte, quella del legame familiare. Intanto i suoi figli sono in comunità. Lei non li vede da mesi.

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