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Gozzano, il bel Guido che mise in poesia la Torino d’altri tempi

guido gozzano

Dici Torino Belle Époque e pensi a Guido Gozzano. E, per molti, dire Guido Gozzano significa evocare la Torino di un secolo fa, senza però saper bene cosa abbia detto o scritto il “bel Guido”. Vaghi ricordi scolastici si affastellano; perché Guido Gozzano è un autore che si studia al liceo (e nemmeno sempre) e si fa di corsa perché in quinta c’è un mondo di cose da fare e tra D’Annunzio, Pascoli e Montale si finisce per dedicargli un piccolo spazio, giusto perché qualche esaminatore si ostina ancora a tirare fuori dal cappello delle domande le «buone cose di pessimo gusto» di nonna Speranza o il giardino della “Signorina Felicita”. Male. Male perché Guido Gustavo Gozzano è stato un gigante, il “GGG” - Grande Gigante Gentile, mi si perdoni la citazione di Roald Dahl - della letteratura piemontese, il cantore della Torino di inizio secolo e il sognatore della Torino d’antan, quella del Risorgimento e del Sei-Settecento fiabesco.

Piace perché brillante senza essere vanesio, perché passatista e moderno insieme, perché ironico come solo i piemontesi sanno essere. Gozzano ha condensato nelle sue poesie lo spirito garbato e modesto del Piemonte borghese, ed è per questo motivo che egli annovera ancora un agguerrito numero di lettori accaniti che sognano sulle sue rime. Lettori e specialmente lettrici, con l’argento nei capelli ma con il cuore ancora giovane. Giovane come Guido, che scrisse “La via del rifugio” e “I Colloqui” nell’età d’oro della vita, una vita che si chiuse in un piccolo appartamento di via Cibrario 65 a soli 33 anni, per colpa della tisi che lo tormentava da anni e che egli aveva cercato di lenire in un viaggio attorno al mondo, fino all’India meravigliosa (viaggio dal quale scaturì quel bel libretto che è “Verso la cuna del mondo”). Egli convisse con la «signora dall’uomo chiamata morte», con la certezza di dover vivere una vita breve. Una signora che «protende su tutto le dita / e tutto che tocca trasforma», ma non per questo cattiva.

Non temeva la morte, sapendo che con lei non si può vincere; semmai, temeva la vita, perché non poteva goderla appieno. Anche per questo, non riuscì mai a legare con una ragazza, e il suo chiacchierato amore con la poetessa Amalia Guglielminetti fu soltanto un flirt nato morto prima ancora di sbocciare. Gustava il sogno delle cose perdute, le «rose che non colsi», per dirla con le sue parole. Si rifugiava nella finzione della letteratura per fuggire la consapevolezza che non avrebbe potuto vivere la realtà del mondo presente. Nella letteratura e nel passato: nella Torino di un tempo egli vedeva la città virile e pienamente realizzata. Altro che i giorni di inizio Novecento: giornate crepuscolari e declinanti, sulle quali incombeva l’incubo della prima guerra mondiale! La sua generazione sentiva l’approssimarsi di qualcosa di tragico; ma nessuno poteva impedirlo. Il mondo doveva cambiare e, in fondo, era già cambiato. I poeti crepuscolari più di tutti avvertivano che ormai si era arrivati al capolinea, che l’Europa non aveva più nulla da dire e che, in fondo, bisognava un po’ vergognarsi di essere poeti (sì, Gozzano scrisse proprio così!). Semmai, si poteva sperimentare. Questo sì. Gozzano fu decisamente uno sperimentatore, sia nella poesia che negli altri campi ove si cimentò. Come il cinema, all’epoca novità delle novità: è poco noto, ma scrisse anche sceneggiatura per un film su san Francesco d’Assisi, che però non vide mai la luce.

Meglio gli andò con “La vita delle farfalle”, uno dei primi documentari naturalistici (il primo, forse, in Italia). Le farfalle! Egli aveva un amore quasi morboso per questi insetti, ai quali dedicò una raccolta incompiuta di versi. Animaletti graziosi e discreti, che aleggiano con quella discrezione tipicamente subalpina, facendo rapida mostra di sé per poi dileguarsi. Un po’ come la poesia di Guido Gustavo Gozzano.

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