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teatro stabile
28 Dicembre 2024 - 16:48
Una scena dello spettacolo in scena al Gobetti dal 7 gennaio prossimo
Il titolo è di per sé esplicativo, “La forma delle cose”. Si parla, dunque, di forma e non di sostanza, si parla di cose materiali. E tutto ciò, dice Marta Cortellazzo Wiel «richiama l’ossessione per l’estetica e la perfezione», quella che in un’epoca come la nostra, è ancora la Wiel, «sacrifica tutto in nome di slogan e apparenze». La ricerca della perfezione e del consenso, il bisogno di approvazione del giudizio degli altri è il tema affrontato da Neil LaBute nel suo testo del 2001 “The shape of things”, La forma delle cose, primo di una trilogia scritta dal drammaturgo americano sull’ossessione del mondo contemporaneo per l’aspetto fisico (gli altri sono “Fat Pig”, La cicciona, del 2004 e “Reasons to be Pretty”, Buoni motivi per essere belli, del 2008). Nella traduzione di Masolino D’Amico e per la regia di Marta Cortellazzo Wiel, “La forma delle cose” debutta in prima nazionale il 7 gennaio 2025 al Teatro Gobetti di Torino in una produzione dello Stabile torinese (in replica fino al 19 gennaio). Sul palco di via Rossini 8 Christian Di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione interpreteranno Adam e Evelyn, Jenny e Philip, quattro giovani che nella loro ricerca ossessiva di “piacere al mondo”, di sentirsi “adeguati”, finiscono per smarrire ciò che davvero conta, ovvero il cammino indirizzato alla ricerca, per quanto possibile, di un po’ di felicità. Tutto ha inizio nella sala di un museo di una piccola cittadina di provincia, ai piedi di una statua raffigurante Dio.
Qui si incrociano le vite di Adam, un giovane guardiano di sala, ed Evelyn, una studentessa d’arte impegnata nel suo progetto di laurea. Questo incontro segna l’inizio di una serie di eventi che porterà i protagonisti, e con loro anche gli amici Jenny e Philip, a confrontarsi con le proprie fragilità. «Ho voluto lavorare con gli attori invitandoli a esplorare la sfera privata dei personaggi, da proteggere o reprimere, in contrapposizione a quella pubblica, mostrata quasi come uno scudo dietro cui difendersi - spiega la regista -. Ho cercato di comprendere con loro il punto di rottura di ogni personaggio all’interno del dramma, facendoli convivere nello spazio scenico per l’intero spettacolo, anche quando l’autore non lo prevede, per ricreare una partitura collettiva, dove tutto influenza tutto, consciamente o inconsciamente». E dove la smania di sentirsi socialmente accettati si trasforma in una prigione.
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