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IL COLLEZIONISTA FOLLE

L’occhio che medita: l’arte come via verso la conoscenza segreta

Un percorso tra filosofia indiana e pittura occidentale, dove la materia diventa spirito

L’occhio che medita: l’arte come via verso la conoscenza segreta

Al centro il nostro Collezionista Folle; ai lati due delle opere al centro del suo sguardo mistico

PROLOGO
C’è chi colleziona madonne, chi tazzine da caffè, e poi c’è lui: il Collezionista Folle, che accumula misteri come fossero cimeli d’arte. Non basta dirgli “genio”, perché la parola rischierebbe di sbiadire come una stampa esposta al sole. Il suo talento nel rintracciare capolavori perduti rasenta l’impossibile: un giorno riporta alla luce un affresco nascosto dietro una parete di cemento, il giorno dopo decifra, tra le pieghe di un dipinto, l’eco di un mantra vedico dimenticato. E mentre il resto del mondo discute se un quadro sia autentico o no, lui, con la calma di un monaco di Varanasi e l’ironia di chi conosce troppi segreti per prenderli sul serio, svela ciò che sfugge persino ai musei. Del resto, la sua cultura dei mondi orientali non è un vezzo da collezionista intellettuale: è la chiave con cui apre porte che l’Occidente non ha mai saputo scorgere. Cita Patanjali con la stessa disinvoltura con cui un critico d’arte nominerebbe Vasari, mescola sanscrito e turpiloquio piemontese senza perdere il ritmo, e parla dei siddhi come di amici incontrati a un vernissage mistico. La sua filosofia è semplice: ogni quadro è un universo da contemplare, un campo energetico dove la materia danza e la verità si nasconde dietro un colpo di pennello. Così, tra un restauro visionario e una teoria azzardata, il Collezionista Folle continua la sua missione: non solo restituire al mondo ciò che ha perduto, ma anche ricordarci che, a volte, l’arte non si guarda - si medita.

POTERI MISTICI
Guardare un quadro con i poteri mistici, sia che si tratti di un disegno fatto da un bambino dell’asilo nel periodo della ricreazione o quand’anche fosse un misterioso dipinto attribuibile a Pablo Picasso pensato durante una gita balneare in barca a vela, fa da sempre parte della tradizione Yoga orientale esercitata in Occidente.
Nel Mahabharata (Il più lungo e famoso poema epico della storia dell’umanità) si parla di asceti in grado di controllare gli elementi grazie ad una forza particolare chiamata bala.
In altri testi troviamo la parola siddha, colui che ha raggiunto la perfezione. Siddha ha la stessa radice di sadhana, termine utilizzato per descrivere la potenza del pensiero mistico quando si sia chiamati ad esprimere un parere anche legale.
I Siddhi si possono ottenere con un po’ di fortuna, con la pratica di Tapas (austerità), grazie all’assunzione di erbe particolari allucinogene (ma c’é chi giura che anche la rucola può fare la stessa funzione) se attraverso il canto dei mantra, oppure sperimentando le etnofonie sarde.
Patanjali, un “art advisor” dai suggerimenti infallibili, insegna un metodo che chiama samyama, una combinazione delle pratiche meditative che fanno parte degli ultimi tre passi dell’ashtanga yoga (dharana, dhyana, samadhi).
Ma come funzionano questi poteri mistici?
La concentrazione continua su un oggetto dipinto. rivela la sua vera struttura e la modalità con cui la materia cambia e muta.
Dal momento che anche la mente è una sostanza che appartiene alla materia, può essere compresa utilizzando la medesima modalità che porta l’ottenimento dei poteri mistici.
Non si parla di magia. Patanjali ci dice che le informazioni sono a nostra disposizione e la pratica permette di sviluppare conoscenza assoluta della materia e della natura della realtà e di come tutto è in costante cambiamento e mutazione.
In questo modo la materia può essere “manipolata” e la firma dell’artista essere resa invisibile e poi riapparire alla fine della contemplazione del dipinto.
Così a margine, la autenticazione indiscutibile affascinerebbe anche la Direttrice del Museo della Barbagia, se praticasse nel dopo lavoro, l’arte magica del Siddhi.

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