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30 Aprile 2025 - 18:05
Il 30 aprile del 1975, Saigon cadeva. Le immagini degli elicotteri che evacuavano in fretta i funzionari statunitensi dall’ambasciata americana rimbalzavano in tutto il mondo: erano il simbolo della disfatta della più grande potenza militare mondiale, messa in ginocchio da un piccolo paese asiatico che combatteva per la propria autodeterminazione. Oggi, cinquant’anni dopo, quella data resta una delle più emblematiche del Novecento, spartiacque tra due ere e simbolo eterno dell’inutilità delle guerre imperialiste.
Iniziato formalmente nel 1955, il conflitto vietnamita fu molto più di una guerra civile. Fu uno scontro tra visioni del mondo, tra blocchi contrapposti nella Guerra Fredda, tra il Nord comunista guidato da Ho Chi Minh e il Sud filo-occidentale sostenuto dagli Stati Uniti. Una guerra sporca, combattuta con bombe al napalm, armi chimiche come l’Agent Orange, massacri di civili e propaganda. Morirono circa 2 milioni di vietnamiti, oltre 58mila soldati americani, e intere regioni del Sud-est asiatico — Laos e Cambogia comprese — furono devastate dai bombardamenti.
Il punto di svolta fu l’incidente del Golfo del Tonchino, nel 1964, quando la marina americana accusò i nordvietnamiti di un attacco a una propria nave, usandolo come pretesto per un’escalation militare. Una menzogna storica, come emerso più tardi, che diede via libera a una guerra totale condotta nel nome della libertà, ma percepita sempre più come una crociata neocoloniale.
La guerra del Vietnam fu anche la guerra che cambiò la percezione della guerra. Mentre sul campo gli Stati Uniti perdevano terreno, nelle piazze occidentali — e soprattutto americane — montava la protesta: studenti, musicisti, intellettuali. Le immagini del monaco Thich Quang Duc che si dava fuoco, o della piccola Kim Phuc che corre nuda e urlante dopo un bombardamento al napalm, scossero l’opinione pubblica mondiale. La canzone “Give Peace a Chance” di John Lennon divenne l’inno di una generazione. Il Vietnam divenne la metafora vivente di un impero in crisi di coscienza.
Con l’arrivo di Nixon nel 1969, gli Stati Uniti cambiarono strategia: meno truppe, più bombardamenti, più segretezza. Ma non bastò. Dopo gli accordi di Parigi del 1973 e lo scandalo Watergate, gli Stati Uniti si ritirarono. Due anni dopo, Saigon cadeva e il Vietnam veniva finalmente riunificato.
Cinquant’anni dopo, il Vietnam è un Paese profondamente cambiato: economia in crescita, apertura verso l’Occidente, turismo in espansione. Eppure, le cicatrici della guerra restano. Negli ospedali, tra i contadini esposti ai residui dell’Agent Orange, nei racconti degli anziani. E nella memoria collettiva del mondo, dove il Vietnam resta il paradigma della guerra inutile.
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