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Pride a metà: il grande ritiro delle aziende dal sostegno alla comunità LGBTQIA+

Dagli Stati Uniti all’Italia, sempre più brand dicono addio alle sponsorizzazioni del Pride

Pride a metà: il grande ritiro delle aziende dal sostegno alla comunità LGBTQIA+

A giugno le strade si coloreranno, i cortei sfileranno, ma l’aria – almeno nei consigli d’amministrazione – sarà meno festosa. Il 2025 segna un’inversione di tendenza significativa: molte grandi aziende, in passato protagoniste visibili e rumorose del Pride, stanno ritirando o ridimensionando il loro sostegno. Dall’epicentro americano a Milano, città simbolo del Pride “sponsorizzato” in Italia, la ritirata è evidente. E ha radici più profonde di una semplice questione di budget.

Nel 1999, il presidente Clinton ufficializzava giugno come mese dell’orgoglio LGBTQ+, gettando le basi di un’alleanza simbolica tra istituzioni e comunità. Da allora, e soprattutto nell’ultimo decennio, molte aziende hanno abbracciato il Pride come momento di visibilità inclusiva e marketing sociale. Ma con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, lo scenario è cambiato radicalmente. Secondo un sondaggio di Gravity Research, due dirigenti su cinque prevedono un taglio agli investimenti per il Pride 2025. E sei aziende su dieci temono ritorsioni dall’amministrazione, apertamente ostile a iniziative pro-diversità.

Il caso Bud Light del 2023 – colpita da un boicottaggio per aver collaborato con un’influencer trans – è diventato emblematico. Le aziende temono ripercussioni non solo politiche, ma anche commerciali. E così, accade che Target chieda di essere un “partner silenzioso” del Pride di New York, senza logo né menzioni. O che colossi come Comcast, Diageo e Anheuser-Busch si sfilino completamente dal San Francisco Pride, lasciando un buco da 1 milione di dollari. E se per eventi grandi questo significa il 10% del budget, per Pride più piccoli – come quello di St. Louis – la perdita può superare il 50%.

Non solo USA. Anche in Italia il vento cambia direzione. UniCredit ha annunciato che non sponsorizzerà il Milano Pride 2025, limitandosi a partecipare con il suo network interno. Amazon farà lo stesso: niente carro né performance musicali come negli anni precedenti, ma solo una delegazione di dipendenti. “Abbiamo ricevuto risposte come: investiremo altrove, non abbiamo budget, sosterremo la diversity in altri modi”, denunciano dal Milano Pride.

Eppure, quel supporto economico serviva non solo a organizzare la sfilata, ma a finanziare il Rainbow Social Fund, che sostiene servizi concreti per la comunità LGBTQ+ milanese. In altre parole, meno sponsor vuol dire meno servizi, meno tutela, meno presenza.

La ritirata delle aziende riapre un vecchio dibattito: il Pride è una festa o una protesta? Molti attivisti criticano da anni la commercializzazione degli eventi e il cosiddetto rainbow washing: aziende che si tingono di arcobaleno per un mese, salvo poi ignorare la comunità per il resto dell’anno – o peggio, adottare politiche aziendali in contrasto con l’inclusione. “Quando era una causa popolare, tutti correvano a finanziarci. Ora fanno marcia indietro”, ha detto Suzanne Ford, direttrice del San Francisco Pride.

Il Pride 2025 sarà più povero, più incerto, forse più difficile. Ma forse anche più vero. Dietro l’abbandono delle aziende si cela l’occasione di tornare al significato originario della manifestazione: una protesta collettiva contro l’emarginazione, un momento di visibilità e lotta, non solo una vetrina per il marketing. Se il sostegno economico vacilla, resta la comunità. E resta la necessità – sempre più urgente – di esserci. Nonostante tutto.

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