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09 Maggio 2025 - 08:00
Sarà il karma! Quante volte lo abbiamo detto, magari per commentare un torto subito o una coincidenza sorprendentemente giusta. È una parola che ormai fa parte del nostro linguaggio quotidiano, anche se spesso non sappiamo bene cosa significhi davvero. La associamo a una sorta di giustizia cosmica: i buoni vengono ricompensati, i cattivi puniti. Ma è davvero così semplice?
In realtà, il concetto di karma affonda le radici in antiche tradizioni religiose e filosofiche dell’India, dove rappresenta un principio molto più profondo e complesso. Nelle dottrine induisti, buddiste e giainisti, il karma è un meccanismo di causa-effetto che lega ogni azione alle sue conseguenze, anche nelle vite successive. Una legge universale, non moraleggiante, che non premia né punisce: semplicemente funziona. È, per dirla in termini occidentali, una sorta di fisica spirituale.
Eppure, nel nostro immaginario – laico, secolare e spesso disincantato – il karma è diventato qualcosa di più simile a un giudice invisibile che osserva, annota e prima o poi presenta il conto. E questo dice molto su di noi.
Una recente ricerca pubblicata dall’American Psychological Association sulla rivista Psychology of Religion and Spirituality, condotta dalla professoressa Cindel White della York University di Toronto, ci aiuta a capire perché così tante persone – anche non credenti – trovano conforto nel pensiero karmico. Lo studio ha coinvolto oltre 2.000 partecipanti provenienti da Stati Uniti, India e Singapore, appartenenti a fedi diverse o nessuna fede, e ha chiesto loro di raccontare episodi legati al karma.
I risultati sono interessanti: quasi il 60% delle persone ha dichiarato di aver sperimentato ricompense in seguito a buone azioni, e addirittura il 92% ha riferito episodi in cui sfortune “meritate” sono capitate ad altri – traditori, bulli, colleghi sleali. In breve, siamo più propensi a vedere gli altri puniti e noi stessi premiati. È una visione del mondo che distingue chiaramente tra “buoni” e “cattivi”, e che costruisce un ordine morale rassicurante.
Ma si tratta davvero di una legge dell’universo? O è un bisogno umano?
In realtà, a spiegarci questo meccanismo interviene la psicologia. Secondo Patrick Heck, psicologo presso il Consumer Financial Protection Bureau, non coinvolto nello studio, siamo vittime di un bias di attribuzione: tendiamo a interpretare ciò che ci accade (e accade agli altri) sulla base di ciò che ci fa sentire meglio. Se ci succede qualcosa di buono, ci convinciamo di meritarlo. Se a qualcuno va male, pensiamo che in fondo “se l’è cercata”.
Questo modo di ragionare rafforza la nostra autostima e ci dà un senso di controllo sulla vita. Ma ha un prezzo: ci distrae da fattori reali come il contesto, le relazioni, il caso. E rischia di portarci a giudicare con superficialità la sofferenza altrui, come se tutto fosse meritato.
Del resto, ammettere che il mondo è spesso ingiusto e casuale è difficile. Credere nel karma, o in qualcosa di simile, è una scorciatoia emotiva per evitare quel senso di smarrimento.
Nelle sue origini, il karma è tutt’altro che una scorciatoia. È un invito alla consapevolezza: ogni azione lascia una traccia, e tutto è connesso. Nel buddismo, ad esempio, si parla di “semi karmici” che germogliano nel tempo, e solo con l’illuminazione si può interrompere il ciclo delle rinascite. Nell’induismo, il karma è legato al dharma, il giusto comportamento, e alla liberazione dal samsara, il ciclo della vita e della morte.
Nel giainismo, invece, il karma è visto come una vera e propria sostanza che “macchia” l’anima e da cui bisogna purificarsi. Mentre nello yoga, secondo Patanjali, è possibile evitare la sofferenza futura attraverso un agire consapevole e non egoistico.
Tutt’altra cosa rispetto alla versione occidentale e pop del karma, che troviamo scritta sui social, nei meme o nei testi delle canzoni. Qui il karma diventa una sorta di vendetta dell’universo. Una giustizia immediata e consolatoria, più che un principio spirituale.
Forse crediamo nel karma perché abbiamo bisogno di una storia che tenga insieme le nostre vite. Un filo conduttore che ci dica che ogni gesto ha un valore, che le nostre scelte contano. Ma anche che le ingiustizie, prima o poi, saranno riequilibrate. È una forma moderna di fede: meno rituale, più intima. Una fede nel fatto che il bene fatto non si perda. Che niente accada per caso. Che ci sia, da qualche parte, un senso.
E questo, in fondo, è qualcosa di profondamente umano.
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