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Sanità
12 Maggio 2025 - 07:00
Il 12 maggio si celebra la Giornata Internazionale dell’Infermiere, una ricorrenza che richiama l’attenzione su una professione fondamentale per la tenuta del sistema sanitario. Una giornata di riconoscimento, certo, ma anche di riflessione: sul valore sociale degli infermieri, sulle criticità che li attraversano ogni giorno, sul silenzio che spesso circonda il loro lavoro.
La data non è casuale: è il compleanno di Florence Nightingale, pioniera dell’infermieristica moderna. Nata a Firenze, abbandonò i salotti dell’alta società inglese per curare i feriti in guerra, per combattere la povertà sanitaria, per dare dignità a una professione che fino ad allora era invisibile. Una rivoluzionaria con in mano una lanterna e nel cuore un’idea: curare è sapere, ma anche ascoltare, comprendere, resistere.
Un ruolo centrale... marginalizzato
Oggi gli infermieri sono ancora lì, al centro del sistema. Solo che il sistema li tratta come un accessorio. In Italia mancano oltre 60.000 infermieri. Solo in alcune regioni, come ha denunciato il sindacato Nursind, la carenza sfiora le 6.000 unità. Ogni anno vanno in pensione più di quanti ne entrano. I reparti si svuotano, le corsie si allungano. E chi resta? Resta chi resiste, ancora una volta. Ma fino a quando?
Sottopagati, sovraccarichi, spesso vittime di aggressioni. L’età media supera i 50 anni, e il ricambio generazionale è lento, quasi fermo. Non è solo una questione di stipendio – anche se quello conta eccome – ma di riconoscimento, di carriera, di tutele. Gli infermieri non chiedono medaglie, chiedono condizioni dignitose. E non per eroismo: per fare bene il loro lavoro. Che non è “assistere” nel senso passivo del termine. È progettare cure, monitorare terapie, interpretare sintomi, salvare vite.
Una proposta concreta c’è: si chiama infermieristica di prossimità. È quella figura che la FNOPI – la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche – ha rilanciato con forza: l’infermiere di famiglia e comunità. Un punto di riferimento stabile, specializzato, radicato nei territori. Che conosce i bisogni delle persone prima che si trasformino in urgenze. Che lavora non solo in ospedale, ma nelle scuole, nei quartieri, nelle case. Che intercetta, ascolta, cura. Una rivoluzione silenziosa, già prevista dal Patto per la Salute, ma mai pienamente attuata.
Un appello che non può più attendere
Oggi non basta dire “grazie”. Bisogna investire. Non solo economicamente, ma culturalmente. Gli infermieri sono l’asse portante della sanità pubblica. Lasciarli soli significa lasciare soli tutti noi. Perché se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato – e che troppo in fretta stiamo dimenticando – è che la salute non è un lusso. È un diritto. E i diritti si difendono. Anche e soprattutto il 12 maggio.
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