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Salute Mentale
14 Maggio 2025 - 18:30
Il burnout è una realtà che non fa distinzioni: il suo volto può essere il diabolico riflesso della società moderna, una società che chiede sempre di più, ma che sembra offrire sempre meno. Tuttavia, dietro a questa sindrome, riconosciuta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, c'è una questione che merita attenzione, soprattutto quando si parla delle donne. L'infaticabile spinta verso la performatività, il "fare tutto e farlo bene", si traduce per molte di loro in un esaurimento che va ben oltre la semplice stanchezza: è un processo psicofisico che consuma, che svuota, che spegne. Ma perché le donne sembrano essere maggiormente vulnerabili a questa condizione?
Le statistiche sono chiare: il burnout colpisce le donne in modo più intenso e frequente rispetto agli uomini. Secondo il report Women in the Workplace 2023 di McKinsey, il 43% delle donne segnala di soffrire di burnout, contro il 31% degli uomini. Questo dato non è casuale, ma riflette un contesto più ampio, fatto di attese culturali e sociali che pongono le donne al centro di un impegno costante. Se da un lato, infatti, le donne continuano a combattere la battaglia professionale, dall'altro non possono sfuggire al cosiddetto secondo turno: quel lavoro non retribuito, ma altrettanto intenso, che si svolge tra le mura domestiche. Una volta terminato il "lavoro ufficiale", inizia quello di cura: figli, cucina, faccende domestiche. È un lavoro invisibile, ma estenuante, che spesso si traduce in un carico mentale insostenibile.
Il concetto di "secondo turno" è stato introdotto dalla sociologa Arlie Hochschild nel 1989 e descrive esattamente questa condizione: le donne, anche quando ricoprono ruoli dirigenziali, si trovano a gestire non solo le loro responsabilità lavorative, ma anche quelle che la società si aspetta di loro, come madri, mogli, figlie. Una fatica che non viene mai riconosciuta come parte del lavoro ufficiale, ma che ha un peso grave sul loro benessere emotivo e fisico.
Quando le donne ricoprono ruoli di leadership, la situazione si complica ulteriormente. La ricerca di McKinsey evidenzia come le donne in posizioni apicali siano più soggette al burnout rispetto ai colleghi uomini. La ragione non sta tanto nelle ore lavorate, ma nella qualità e complessità delle mansioni. Le manager donne, infatti, sono spesso incaricate di gestire un "lavoro emotivo" che riguarda la cura del benessere psicologico del team. Questi gesti di supporto emotivo, pur essendo fondamentali per il buon andamento di un gruppo di lavoro, non vengono mai adeguatamente riconosciuti o premiati.
In un contesto che premia la competenza tecnica, le doti empatiche e relazionali delle donne finiscono per essere sottovalutate. Il risultato è un sistema che sfrutta la capacità delle donne di "gestire emozioni" senza mai restituire loro alcun tipo di ricompensa. Non solo: oltre a essere impegnate nelle loro funzioni ufficiali, le donne manager sono costrette a sostenere il peso emotivo del gruppo, ma questo non viene mai riconosciuto come parte integrante del loro lavoro. La leadership empatica è una qualità richiesta, ma raramente valorizzata. E quando le donne si trovano a dover affrontare la stanchezza e il logorio emotivo, spesso non vi è nessun tipo di supporto a cui possano fare riferimento.
Alla base di tutto questo c'è un aspetto culturale che gioca un ruolo cruciale. La società educa le donne fin da piccole a essere empatiche, a prendersi cura degli altri, a essere sempre disponibili. Un "lavoro relazionale" che si estende anche all'ambito professionale, dove le donne si trovano ad avere il ruolo di "collante emotivo" tra i colleghi. Questi comportamenti, che vengono richiesti implicitamente, finiscono per esaurire le energie senza che vi sia mai un reale riconoscimento del loro valore.
Non è solo una questione di carico di lavoro: le donne sono anche soggette a una pressione estetica e di performance che le rende ancora più vulnerabili al burnout. Non è sufficiente fare bene il proprio lavoro, bisogna farlo anche con un aspetto impeccabile. Una pressione che incide ulteriormente sulla loro salute mentale e sul loro benessere, aggiungendo un ulteriore strato di stress.
Infine, c'è un tipo di burnout ancora più nascosto, che si intreccia con la discriminazione razziale. Le donne nere, ad esempio, devono affrontare un ulteriore livello di fatica, quello che viene definito racial burnout. Il costante dover dimostrare il proprio valore in un ambiente che non le accetta pienamente e le costringe a rappresentare la propria comunità è un peso che, spesso, rimane invisibile agli occhi della società. Le microaggressioni, l'isolamento e le pressioni implicite per conformarsi a standard dominanti possono avere effetti devastanti sulla salute mentale di una persona.
Il burnout femminile non può essere risolto semplicemente con corsi di yoga o tecniche di rilassamento. Ciò che serve è un cambiamento profondo, a livello culturale e organizzativo. Le politiche aziendali devono riconoscere il carico emotivo e psicologico delle donne e adottare misure per alleviarlo. È necessario un riconoscimento del lavoro emotivo che le donne svolgono quotidianamente, sia a casa che al lavoro, e che sia adeguatamente supportato e valorizzato.
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