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IL FATTO
08 Marzo 2025 - 19:54
Un detenuto delle Vallette al lavoro nella lavanderia del carcere
Il lavoro carcerario, quando è simile a quello dei liberi, è tanto più rieducativo. Con questa motivazione, la Corte di Cassazione ha stabilito che anche i detenuti che concludono una prestazione lavorativa devono avere diritto alla Naspi, l'indennità di disoccupazione. La sentenza riguarda un detenuto della casa circondariale di Ivrea che aveva lavorato come imbianchino su un progetto con contratto a termine, dal 1° marzo al 31 ottobre 2016, con retribuzione attraverso il progetto "Cassa Ammende", destinato a finanziare i progetti lavorativi dei detenuti.
I giudici della sezione Lavoro hanno sottolineato che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma è finalizzato alla rieducazione del detenuto e al suo reinserimento sociale, quindi va trattato come un ordinario rapporto di lavoro e pertanto deve essere remunerato e tutelato dal punto di vista assicurativo e previdenziale. Questo principio, secondo la Cassazione, implica che la Naspi debba essere riconosciuta anche ai detenuti che concludono il loro lavoro, garantendo loro la stessa protezione sociale di chi svolge attività lavorative nel mondo esterno.
La vicenda giudiziaria ha visto il detenuto vincere una causa contro l’Inps, che inizialmente aveva contestato il diritto all'indennità di disoccupazione. I legali dell'Inps avevano cercato di sostenere che i detenuti non sottoscrivono un vero e proprio contratto di lavoro, ma vengono assegnati ai lavori penitenziari, e che la loro retribuzione è inferiore ai limiti stabiliti dai contratti collettivi. La Corte ha anche precisato che il diritto alla Naspi si estende anche ai detenuti che perdono il lavoro in seguito alla loro uscita dal carcere. Nel caso specifico, il detenuto aveva già scontato la sua pena. Il Garante comunale dei detenuti, Raffaele Orso Giacone, ha commentato positivamente la sentenza, affermando: «Sono contento che abbiano riconosciuto i suoi diritti. Una bella notizia. Spiace solo che abbia atteso nove anni per ottenere ciò che gli spetta».
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