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Politecnico, culla della censura? Il bavaglio del rettore Corgnati e il conformismo accademico

Tra antisemitismo di ritorno e cultura woke, il caso di Torino fa discutere

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Ci sono gesti che non appartengono a un’università, ma a un tribunale politico. L’annullamento del corso del professor Pini Zorea al Politecnico di Torino rientra pienamente in questa categoria infame. Zorea, docente israeliano ed ex riservista, ha osato dire che l’esercito in cui ha servito sarebbe “il più corretto del mondo”. Opinione personale, discutibile? Certo. Ma in un ateneo dovrebbe valere la regola aurea: discutere, non zittire. Invece il rettore Stefano Corgnati, con zelo da funzionario del partito, ha bollato l’affermazione come “inaccettabile” e ha chiuso il corso. Un atto che sa di sopraffazione, una violenza intellettuale spacciata per etica accademica.

Eppure è proprio in questi gesti che si vede il volto del nuovo autoritarismo: non quello dei manganelli, ma quello delle delibere rettorali. Corgnati non ha compiuto un gesto di responsabilità: ha offerto il sacrificio rituale al dio del pensiero dominante, ha mostrato la sua devozione al coro dei conformisti. Perché oggi, nelle università, essere allineati non è un optional: è la conditio sine qua non per scalare la carriera che porta altrove. Corgnati, come altri zelanti custodi dell’ortodossia progressista, sembra coltivare l’idea che la carriera universitaria sia trampolino verso ben altre poltrone: sindaco di Torino, incarichi nelle fondazioni bancarie, ruoli nei salotti dei poteri forti di una città sempre più impoverita e governata da nominati allineati e obbedienti. Non è la prima volta che il conformismo diventa moneta di scambio: un rito di passaggio per chi aspira a diventare figura pubblica. Ma quando questo avviene a spese della libertà accademica, il prezzo lo paga la collettività. Attendere le prossie elezioni per credere.

Il risultato? Un clima avvelenato. A Pisa i collettivi hanno già dato lezione, a modo loro: pestaggio al professor Rino Cascella, colpevole di “sionismo”. Ecco il frutto maturo della pianta che Corgnati innaffia: l’idea che certe parole non siano da confutare, ma da estirpare. L’università non come luogo di confronto, ma come palestra di intolleranza.

Naturalmente nessuno, in questo rito conformista, si ricorda del 7 ottobre 2023, dei civili israeliani sterminati, delle donne violentate, dei bambini strappati alle famiglie e ancora sepolti vivi nei tunnel di Hamas. Dettagli fastidiosi, che disturbano la liturgia dell’“antisionismo” di moda. E guai a ricordare che lo scopo dichiarato dei dirigenti palestinesi non è la convivenza, ma la cancellazione di Israele dalla faccia della terra. Troppo scomodo. Meglio ridurre la complessità a slogan da assemblea studentesca: Israele carnefice, Palestina vittima. Così è più facile sembrare rivoluzionari sorseggiando un cappuccino nei salotti bene.

Ma il ridicolo, in questa tragedia, trova sempre spazio. Perché oltre a Corgnati ci sono i trombettieri dell’ovvio, gli intellettuali da talk show che si ergono a maestri di pensiero unico. Piergiorgio Odifreddi, ad esempio: il matematico che pretende di ridurre il mondo a una formula e la politica a un calcolo. Sempre pronto a pontificare, sempre intento a ricalcare i contorni di un conformismo da manuale. Lui e i suoi simili sono i veri “influencer” della mediocrità: paladini della libertà solo quando coincide con la loro agenda, giustizieri morali che si autoproclamano “pensatori liberi” mentre sono incatenati alla più servile ortodossia. Odifreddi come un burocrate di Brežnev in giacca di tweed: sorridente, autoconsacrato, incapace di concepire che si possa pensare diversamente.

L’atto di Corgnati ha il sapore di quelle repressioni sovietiche che colpivano i dissidenti, spesso ebrei come Siniawsky e Daniel, accusati di deviazionismo. Allora si parlava di gulag, oggi basta un clic sul sito dell’ateneo per cancellare un corso. Cambiano gli strumenti, resta intatto lo spirito: lo zelo servile di chi reprime non per convinzione, ma per opportunismo.

Il problema è che da questi gesti non nasce solo l’ipocrisia, ma qualcosa di più oscuro: un antisemitismo di ritorno, travestito da critica politica. È la cultura del bavaglio, della sopraffazione, della sinistra universitaria che si vergogna di chiamarsi comunista e si rifugia nel vocabolario Woke, brandendo “antisionismo” come passe-partout per nascondere la propria vuotezza. Una sinistra di benestanti, di case eleganti, di salotti televisivi. Sempre in prima linea quando c’è da condannare Israele, sempre distratta quando c’è da ricordare le vittime ebree.

Il Politecnico di Torino, in questa storia, non è più tempio di scienza e conoscenza: è diventato il palcoscenico di una farsa burocratica, con rettori-burocrati pronti a inchinarsi al pensiero dominante e trombettieri come Odifreddi a scandire i ritornelli del conformismo. Si chiama “libertà accademica”, ma è il suo funerale. E Torino, una volta capitale industriale e culturale, oggi resta prigioniera di una classe dirigente che ha fatto del servilismo la propria ideologia.

Il risultato finale? Un’università che non insegna a pensare, ma a obbedire. Un rettore che non difende la libertà, ma la sacrifica per compiacere il coro. Un intellettuale che non sfida i dogmi, ma li recita. E la libertà – quella vera, dura, rischiosa – viene liquidata come “inaccettabile”. Proprio come il corso di Pini Zorea mentre resta il conformismo del pensiero unico imposto a colpi di bavaglio. Una caricatura , tra zeloti del politically correct e burocrati in carriera.

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