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L'intervista della settimana

Torino - Los Angeles: il mago dei software in Usa cerca di fortuna

Tommaso Rossino: nato a Torino, a 33 anni si trasferisce a Los Angeles, nella “ All Valley" californiana per inseguire il “sogno americano”. Oggi oltre al mondo dell’Informatica si dedica anche ad una pagina social «La nostra California»

Torino - Los Angeles: il mago dei software in Usa cerca di fortuna

Quindici anni di esperienza nel settore dello sviluppo software, poi il “sogno americano”, nato «quando ho parlato con un ragazzo assunto alla DreamWorks». L’idea di lavorare in un contesto più tecnologicamente avanzato, come quello della Silicon Valley californiana, gli ha acceso “il pallino”, spingendolo a riplasmare la propria carriera e condividerne «croci e delizie» via social. È la storia di Tommaso Rossino, trentaseienne che circa tre anni fa da Torino si è trasferito con la sua famiglia oltreoceano.

Ci racconti come è nato il tuo desiderio di trasferirti all’estero, e in particolare negli Stati Uniti?

«Certo. Ho iniziato a pensare al trasferimento un paio d’anni dopo aver iniziato a lavorare nel mio settore. Sentivo il bisogno di crescita, di fare qualcosa in più. Poi una sera ho parlato con un ragazzo che si era trasferito a San Francisco per lavorare alla DreamWorks… e da lì mi si è acceso un pallino. Quella storia mi ha colpito tantissimo. Così ho cominciato a scrivere ad aziende americane, non tanto per cercare lavoro, quanto per capire cosa “tirava”, quali tecnologie fossero più richieste. In base a quello, ho rimodellato il mio percorso professionale per allinearmi a quelle tendenze».

Così hai provato ad anticipare i trend tecnologici rispetto all’Italia?

«Sì, esatto. In quel periodo, in Italia si usavano ancora tecnologie molto vecchie, il mondo del front-end era indietro rispetto ad altri Paesi. Io ho iniziato a lavorare e studiare su tecnologie che in Italia non si usavano ancora, quindi posso dire di avere avuto una certa visione anticipata. Col tempo quelle tecnologie sono diventate un trend anche qui, ma io ci ero già dentro. Probabilmente in Italia, su certi segmenti tecnologici, sono tra le persone con più esperienza».

Prima di trasferirti, dove lavoravi?

«Ho sempre lavorato a Torino, finché non mi sono trasferito in California a 33 anni. Ora ne ho 36. Il mio trasferimento è stato possibile grazie a una piccola multinazionale americana, Hoversite, che aveva anche una sede in Italia. Ho lavorato con loro per diversi anni in Italia, e poi, dopo quattro anni, siamo riusciti a effettuare il trasferimento. È stato un percorso lungo. Anche a causa del Covid, per ottenere i documenti io e la mia famiglia ci abbiamo messo due anni. Ma in totale, dall’idea iniziale al trasferimento, ne sono passati circa otto».

Ora dove vivi?

«Nella cosiddetta “All Valley”, dove hanno girato anche la serie ispirata a Karate Kid, Cobra Kai».

Com'è stato il passaggio lavorativo Italia - Stati Uniti?

«Dal punto di vista lavorativo, è molto diverso. Qui sei valutato molto di più per quello che sai fare, non solo per quanti anni hai di esperienza. In Italia, per diventare “senior”, conta l’anzianità, non la qualità. Qui, se sei bravo, lo diventi anche in 3-4 anni. È molto più meritocratico».

E gli stipendi?

«Molto variabili. Per un senior developer come me qui si può andare da 80mila a 350mila dollari l’anno, e anche oltre. Nel mio caso, non ho potuto negoziare molto a causa delle limitazioni del visto, quindi ho un salario nella media. Da solo vivrei benissimo, ma avendo una famiglia – con tutte le spese del caso, come l’assicurazione sanitaria – vivo bene, ma niente di eccezionale».

Sei lì con la tua famiglia?

«Sì, siamo arrivati in tre e poi è nata la nostra seconda figlia qui, che quindi è americana. L’altra bambina è nata in Italia, ci siamo trasferiti quando aveva tre anni. Ora stiamo gestendo anche la cittadinanza italiana per la più piccola. Ma per lo Stato non ci sono differenze, noi non abbiamo nessun problema con il fatto che abbiano due nazionalità diverse».

Ti sembra che qui la diversità sia meglio accettata?

«In generale sì. La California in particolare è uno stato molto liberale, anche troppo in certi aspetti. Sicuramente ci sono anche qui situazioni complicate – tipo l’enorme numero di clandestini – ma la convivenza tra culture diverse è molto più sviluppata. In Italia, anche solo in certi contesti, vedere una persona non bianca è ancora vissuto come “strano”».

Adesso con la tua famiglia avete una pagina social su cui racconti sia l’esperienza da “italiano all’estero”, con le difficoltà del caso, che la vita quotidiana in famiglia...

«Sì, non mi sarei mai aspettato di conoscere così tante persone. Potrei andare in giro per molte parti del mondo avendo un letto in cui dormire, grazie ai social. Soprattutto grazie a TikTok».

Ti stupisce la cosa?

«Sì, anche perché pensavo che su TikTok ci fossero solo “ragazzini” o gente un po’ “strana”».

La città ti ha dato quel che ti aspettavi?

«Non ancora. Potrei fare di meglio».

Che obiettivi hai?

«Spostarmi, cercare altre realtà lavorative, anche meglio pagate».

Torneresti in Italia adesso?

«Non “per scelta”, non dipende solo da me».

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