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Finanza & Industria

Auto, BYD "scippa" Stellantis: 85 fornitori dell'indotto per la nuova fabbrica. Allarme delocalizzazione?

Alfredo Altavilla dialoga con Francesco Profumo (Isybank): "Torino ha paura di investire"

byd scommette sul Piemonte: 85 fornitori italiani per l’auto elettrica europea

Una rivoluzione industriale spesso non si annuncia con i fuochi d’artificio, ma con un’agenda fitta di incontri, numeri che cambiano scala e decisioni che ridisegnano le filiere. E in questo caso una grande opportunità potrebbe celare un grande rischio: la fuga delle imprese dal territorio.

È ciò che sta accadendo tra Torino e l’Europa dell’auto: il colosso cinese BYD, 107 miliardi di dollari di giro d’affari, decide di portare a bordo 85 fornitori italiani per costruire in Europa vetture elettrificate nate in Ungheria e disegnate anche in Italia. E molti di questi fornitori sono parte della filiera storica ex Fiat, ossia Stellantis, del grande indotto torinese legato all'automotive. È un segnale? O l’atto fondativo di una nuova geografia industriale in cui il “made in Piemonte” ritorna protagonista nella mobilità del futuro, ma forse lontano da qui?

UN ANNUNCIO CHE CAMBIA IL GIOCO
La rifessione parte da Palazzo Falletti di Barolo, a Torino, nel corso di un incontro sul futuro di industria e finanza organizzato da Comin & Partners e dallo studio Gianni & Origoni, Alfredo Altavilla — già top manager di Fiat e Alitalia, oggi special advisor di BYD per l’Europa — ha svelato la mossa: BYD ha già stretto accordi con ben 85 fornitori italiani per alimentare la produzione del primo stabilimento europeo del gruppo in Ungheria. Nel dialogo con Francesco Profumo, presidente di Isybank (Intesa Sanpaolo), Altavilla ha attribuito l’accelerazione a un lavoro preparatorio: il summit di febbraio al MAUTO, sempre a Torino, dove la casa cinese ha incontrato una filiera capace di presentarsi con numeri e competenze. Quell’appuntamento si inserisce in una stagione intensa per l’ecosistema locale: dagli oltre 400 inviti al summit fornitori di Stellantis alle 380 aziende e 176 incontri B2B della “maratona” per un contratto con BYD. “Così BYD aumenta di quattro volte in un sol colpo il volume di fornitori italiani — ha detto Altavilla —. Un traguardo non scontato, raggiunto grazie al summit di Torino”. Ma l’entusiasmo non cancella i nodi: “I miei colleghi cinesi sono rimasti impressionati dalle capacità della filiera, anche se i costi dell’energia rendono queste bellissime imprese meno competitive di altre”. È la cruna dell’ago attraverso cui deve passare la reindustrializzazione: tecnologia e prossimità al cliente sì, ma anche costi di sistema sostenibili.



LA STRATEGIA DI BYD: EUROPA AL CENTRO, AUTO COME “SMARTPHONE”
La traiettoria è chiara. Dopo l’Ungheria e la Turchia, BYD guarda a un terzo sito in Europa, mentre in Italia — a Milano — aprirà il proprio centro di design. La casa cinese, primo produttore globale di veicoli elettrificati, vede l’auto del futuro come uno “smartphone su ruote”: piattaforme software, servizi e aggiornamenti continui. Ma per consolidare il modello occorre anche mettere ordine in patria. “In Cina ci sono 165 marchi automobilistici. Lo Stato ha deciso di fermare gli incentivi, e fa bene: la guerra dei prezzi sta mettendo in difficoltà il comparto”, ha osservato Altavilla. Il rallentamento è tangibile: BYD ha visto frenare gli utili del 33%, pur restando in positivo, a 1,10 miliardi di dollari. Un’onda lunga che arriva fino all’Europa, già sotto pressione per la transizione.



GREEN DEAL, 2035 E IL CONTO INDUSTRIALE DELL’EUROPA
Altavilla non ha usato giri di parole sul quadro regolatorio europeo: “L’Europa ha fatto la prima legge al mondo che obbliga un consumatore a comprare una tecnologia. Quando è nato il 5G, nessuno ha escluso gli altri cellulari; così per la tv 8K. Invece dal 2035 non si potranno più produrre né comprare auto a motore”. Un vincolo che, nella sua lettura, servirebbe anche a “ridare una verginità ai costruttori tedeschi dopo il dieselgate”. Con quali effetti? La previsione è drastica: da 17 milioni a 10 milioni di auto prodotte in Europa nel giro di dieci anni. Meno volumi significa meno economie di scala e, potenzialmente, meno occupazione. “I costruttori europei sono come i passeggeri del Titanic: tra dieci anni la maggior parte di questi brand non esisterà più, ma continuano ad andare a farsi le foto a Bruxelles con von der Leyen”, ha affondato il manager.

Per BYD, localizzare forniture e competenze in Piemonte e in Italia equivale a integrare una tradizione manifatturiera robusta nel proprio disegno europeo (e trasformare in europee le auto cinesi, ossia evitando i dazi) Per le imprese del territorio, significa posizionarsi su piattaforme tecnologiche globali e sfruttare la curva d’apprendimento dell’elettrico. E ritrovare commesse dopo le difficoltà legate alla crisi di Stellantis, per quanto il piano del ceo Antonio Filosa per l'Italia preveda acquisti per 6 miliardi di euro dai fornitori locali. 

Ma se l'indotto, anche quello piemontese - fra le 85 imprese citate da Altavilla ve ne sono numerose che gravitano attorno a Mirafiori -, entra in BYD, il grosso timore non espresso è che possa cominciare una forte delocalizzazione: in Ungheria i costi sono inferiori e, per molte imprese, è complesso tenere in piedi un "doppio canale" di forniture, senza magari avviare una produzione in loco. Medesimo schema visto, sempre a proposito di Stellantis, con il polo industriale a Kenitra che sta attirando imprese italiane.

La presenza di un centro di design a Milano, inoltre, promette contaminazione fra creatività e ingegneria, ma anche una chiara indicazione sulla "testa" del gruppo cinese in Italia (che all'ombra del Duomo avrà anche la sua parte commerciale e la filiale di vendita).

TORINO TRA CORAGGIO E TIMORI: LA DIAGNOSI DI PROFUMO
E il ruolo di Torino, in questi cambiamenti di paradigma fra industria ed economia finanziaria? Francesco Profumo, con l’esperienza da ex rettore del Politecnico di Torino ed ex presidente della Compagnia di San Paolo, ha allargato lo sguardo ai nodi strutturali. Sul vertice europeo, ha confessato di aver preferito Mario Draghi, aggiungendo: “Oggi non vedo grandi margini di cambiamento”. Sul fronte locale, ha indicato nella “scarsa propensione al rischio, e quindi a investire” il cuore del problema piemontese, aggravato da una doppia sfida — demografica e industriale. I numeri sono impietosi: un quarto dei nati rispetto agli anni Sessanta, da 1,4 milioni di bambini nel 1967 a 370mila oggi; e livelli di scolarità che ricordano “il primo Novecento”. Parole dure: “Dal punto di vista demografico, l’Italia è un Paese fallito”. Eppure, Torino ha dimostrato di saper programmare con un’ottica ventennale, tessendo un ecosistema dell’innovazione che dalle OGR arriva alle realtà fondate da Stefano Buono — Newcleo e Planet, non tutte note liete, va detto — lo scienziato-imprenditore “riportato” in Italia su intuizione dello stesso Profumo. Qui passa la strada maestra: ridare muscoli alla manifattura attraverso ricerca, capitale paziente e filiere corte con grandi player globali. Un avvertimento, però, sullo sfondo fiscale: la tassa sugli extraprofitti colpisce indirettamente le Fondazioni azioniste delle banche, che alimentano il welfare locale e progetti abilitanti. Intaccare quella linfa può significare frenare l’innovazione proprio dove serve accelerare.

DAZI, TECNOLOGIE E LA LEVA DELLE COMPETENZE
Se i dazi fanno tremare i mercati, non tutto si ferma alla frontiera. A Torino si sviluppano tecnologie di punta — come il “miglior laser del mondo” per l’auto elettrica, ricordava un altro focus — che trovano sbocchi anche “dazi o non dazi”. È un promemoria: l’export di conoscenza pesa tanto quanto quello di componenti. E l’arrivo di BYD può agire da moltiplicatore, a patto di scalare sulle specializzazioni dove il territorio eccelle: elettronica di potenza, software embedded, meccatronica di precisione, materiali leggeri, e naturalmente design. Dove atterra, allora, la scommessa cinese sul Piemonte? In una filiera che sa ancora correre, ma che chiede ossigeno in forma di energia a prezzi competitivi e investimenti in capitale umano. In una città che “ha paura di sbagliare”, come dice Profumo, ma che ha già tracciato mappe di lungo periodo. E in un’Europa che decide il perimetro delle regole, ma da cui le imprese pretendono chiarezza e tempi certi.

IL BIVIO EUROPEO E LA SCELTA TORINESE
La metafora del Titanic scuote, ma non è un destino. La rotta la scrivono le decisioni industriali di oggi: accordi di fornitura, centri di design, fabbriche in Ungheria e Turchia, forse un terzo sito nel continente. Numeri che, se tradotti in catene di valore ancorate al territorio, possono ridurre il rischio di “deindustrializzazione ordinata” evocato da molti. La vera domanda, per Torino e il Piemonte, è semplice e radicale: sapranno trasformare una “commessa” in una piattaforma? O resteranno subfornitura di qualità senza governare la curva dell’innovazione? 

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