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L'editoriale
09 Agosto 2025 - 06:30
Stefano Boeri
Lo scandalo urbanistico esploso recentemente a Milano non sorprende chi, da tempo, osserva le dinamiche sotterranee del potere politico e immobiliare nelle grandi città italiane. Milano è solo l’ultimo esempio di una pratica consolidata da decenni: il dominio silenzioso del Partito Democratico, erede del PCI, sugli assessorati all’urbanistica. Un controllo che ha permesso di plasmare le città secondo logiche politiche e interessi economici precisi dietro il mito di una buona amministrazione progressista. Già dal dopoguerra il PCI, applicando la logica gramsciana dell’egemonia sulla cultura anche all’urbanistica, aveva compreso che il vero potere locale urbano risiedeva nella gestione del territorio. Fu così che quelle che, per la subcultura politica consolidata, venivano chiamate “regioni rosse”, da Bologna a Firenze, passarono interamente sotto l’ala protettiva della sinistra, radicata nell’ideologia del “controllo virtuoso” dello spazio urbano. Assessori comunisti, fedeli alla linea politica del partito, commissionavano piani regolatori che promettevano equità e progresso sociale, ma talvolta degeneravano in veri e propri disastri architettonici e sociali nelle città che amministravano. Gli esempi più tristemente celebri restano incisi nella storia italiana come ferite ancora aperte.
Roma con il Corviale, Palermo con lo Zen, Trieste con il Rozzol Melara e Napoli con le famigerate Vele di Scampia sono testimonianze dell’arroganza ideologica di chi, pensando di risolvere il disagio sociale con la sola teoria marxista funzionalista applicata all’architettura, finì per produrre, come usavano chiamarle, “macchine per abitare”: quartieri-ghetto che avrebbero generato solo anomìa, alienazione e disperazione. Veri e propri mostri di cemento, ghetti del disagio che, come qualcuno saggiamente ha suggerito, andrebbero rimossi radicalmente con il tritolo, come si è cominciato a fare con le Vele. Con la fine della Guerra Fredda e la transizione dal PCI al PD, il paradigma urbanistico della sinistra muta profondamente. Dalla politica delle masse popolari si passa gradualmente ai ceti abbienti urbani, alle élite colte e benestanti che oggi costituiscono il nuovo blocco sociale di riferimento del Partito Democratico. Milano ne è l’esempio più lampante: il centro storico, un tempo quartiere vivo e popolare, si trasforma in una vetrina scintillante per milionari, manager e architetti-star acclamati dalla grande stampa. Così, dietro il paravento della “riqualificazione urbana”, sorgono torri e grattacieli inaccessibili per la classe media, schiacciata da prezzi immobiliari esorbitanti e costretta a migrare verso periferie sempre più lontane e sempre meno servite. Ai lavoratori, agli impiegati, agli operai non restano che le periferie desolate delle città dormitorio, distanti talvolta ore di viaggio dal luogo di lavoro e prive di servizi essenziali. Il meccanismo, per come lo descrive la magistratura inquirente milanese, sembrerebbe semplice e ben oliato. L’ assessorato ed altri membri dell’amministrazione sono in costanti e ravvicinati contatti con studi d’architettura con molte entrature e politicamente vicini. Questi architetti propongono “progetti di riqualificazione” accompagnati da una pressante azione paralobbistica. Questi stessi studi di architettura collaborano regolarmente, e per loro redigono i progetti, con imprese di costruzione amiche, con grandi capacità finanziarie, che metteranno in opera i progetti speculativi.
Le commissioni per il paesaggio, lungi dall’essere organismi neutrali e indipendenti, funzionano come comitati di ratifica delle scelte del potere politico, spesso chiudendo gli occhi davanti a interventi che snaturano irrimediabilmente interi quartieri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumento esponenziale delle disuguaglianze, gentrificazione selvaggia, privilegi e balzelli di sapore medievale sull’accessibilità veicolare nelle ZTL, generale aumento del costo della vita. Queste dinamiche urbanistico-amministrative hanno portato alla formazione di una nuova borghesia, composta da nominati fedeli al partito, a cui è richiesta innanzitutto obbedienza politica e solo secondariamente competenza tecnica, speculatori, immobiliaristi parvenù e faccendieri. È un potere diffuso e quasi invisibile, che sfugge ai radar fino a quando qualche procura non comincia ad indagare e scandali clamorosi come quello recente milanese non emergono alla luce del sole. Fermo restando che si è innocenti fino all’ultimo grado di giudizio, il giudizio etico e politico non aspetta i tempi lunghi della giustizia. Il dramma non è solo milanese, ma riguarda una pluralità di città storicamente amministrate dalla sinistra. Torino, un tempo città simbolo del lavoro operaio, è stata toccata anch’essa da architetti celebrati come Fuksas, che ha progettato nella caratteristica Porta Palazzo, cuore pulsante del commercio ambulante torinese, quello che molti giudicano un ecomostro, un freddo e quasi deserto agglomerato di ferro, cemento e vetro, simbolo inquietante e fuori luogo di un’urbanistica lontana dalla vita reale dei cittadini. Senza parlare del Palazzo della Regione Piemonte.
Perché Fuksas è venuto a lasciare la sua impronta a Torino? Chiederlo ai passati assessori all’urbanistica. Quello attuale viene da Milano, dove è plurinquisito, perché sembra che a Torino non ce ne fosse uno all’altezza. Archistar come Stefano Boeri diventano eroi mediatici, presentati come salvatori delle città moderne, ma dietro il loro successo si nasconde un sistema profondamente iniquo. Un sistema che favorisce speculazioni immobiliari sfrenate e sposta le classi sociali come pedine su una scacchiera, curvando artificialmente la composizione sociale delle città a proprio vantaggio politico ed economico. Se Milano oggi è sotto accusa, è solo perché il velo di ipocrisia e silenzio è caduto per un attimo, mostrando chiaramente dove risiede il vero potere della sinistra italiana. Non nelle piazze o nelle sezioni di partito, ma soprattutto nelle stanze chiuse degli assessorati urbanistici, dove si decidono fortune e destini delle città, nel segno di una continuità che dal PCI al PD non ha mai cessato di alimentare privilegi, clientele e, a volte, scandali.
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