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L'editoriale

L’impero che non muore: da Budapest a Kiev, lo stesso copione del Cremlino

Dal 1956 all’Ucraina di oggi, i carri armati russi parlano sempre la stessa lingua. L’Europa deve rispondere con unità e deterrenza

L’impero che non muore: da Budapest a Kiev, lo stesso copione del Cremlino

L'invasione dell'Ungheria e Breznev-Putin secondo l'Intelligenza Artificiale

C’è un filo che lega Budapest 1956, Praga 1968 e Kiev 2022. È il filo rosso dell’espansionismo russo, che cambia bandiera, cambia giustificazioni, ma non cambia natura. Zar, segretari comunisti o presidenti “patrioti”: il Cremlino non tollera che i Paesi vicini scelgano liberamente la propria strada. Nel 1956 gli ungheresi osarono ribellarsi. La capitale si riempì di studenti e lavoratori che chiedevano libertà, democrazia e neutralità. Ma Mosca rispose con 4.000 carri armati e 200.000 soldati: migliaia di morti, un Paese ricondotto al silenzio. Dodici anni dopo, la Primavera di Praga con il suo “socialismo dal volto umano” subì lo stesso destino. Leonid Breznev codificò la dottrina della sovranità limitata: libertà sì, ma solo entro i confini imposti da Mosca. Ad agosto del 1968, 200.000 soldati e 5.000 carri armati invasero la Cecoslovacchia, cancellando i sogni di riforma.    Oggi è l’Ucraina a vivere quella stessa condanna. Come Praga allora, Kiev guarda all’Europa e all’Occidente. E come allora, Mosca risponde con i cingoli e con la violenza.

Vladimir Putin ripete lo schema di Breznev e Stalin: sotto la retorica della “protezione delle minoranze” c’è la stessa logica imperiale che da secoli guida il Cremlino. La doppiezza è evidente anche nella diplomazia. L’incontro con Donald Trump in Alaska ne è la prova: sorrisi, promesse di dialogo, illusioni di pace. Ma la realtà è un’altra: Putin non vuole compromessi, vuole tempo e vantaggio. La pace, per Mosca, arriva solo dopo la sconfitta militare sul campo. Così fu in Afghanistan negli anni Ottanta, quando l’Armata Rossa fu costretta al ritiro dopo dieci anni di logoramento. Per questo la partita oggi riguarda l’Europa. Non può più nascondersi dietro la protezione americana, né accontentarsi di dichiarazioni di principio. La nuova balance of power impone che l’Unione europea diventi deterrente. Che sappia essere non spettatore, ma protagonista della propria sicurezza. Budapest, Praga, Kiev: tre tappe, un unico copione. La Russia non arretra con le parole, ma solo davanti ai fatti. Se l’Europa non costruirà la propria forza, se continuerà a dividersi e a sognare la pace come dono, scoprirà troppo tardi che il copione del Cremlino è pronto a ripetersi. L’impero russo non muore mai: si traveste soltanto.

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