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Curiosità
16 Giugno 2025 - 15:45
C’è qualcosa di profondamente disturbante e al tempo stesso magnetico in una scuola deserta al tramonto, in un centro commerciale spento, in un corridoio d’albergo illuminato da luci fredde e privo di qualsiasi presenza umana. Questi luoghi, a metà tra il quotidiano e il surreale, vengono chiamati spazi liminali: ambienti sospesi, sulla soglia – come suggerisce la radice latina “limen” – tra ciò che era e ciò che sarà.
Non-luoghi che sembrano usciti da un sogno
Gli spazi liminali sono ambienti di passaggio: pensati per connettere, non per trattenere. Pensa a una sala d’attesa, a una rampa di scale di un edificio pubblico, a un parcheggio multipiano illuminato da neon tremolanti. Sono luoghi reali, ma in certe condizioni – spesso vuoti, spogli, silenziosi – sembrano appartenere a un altro piano dell’esperienza. È questa contraddizione che genera quello strano mix di inquietudine e familiarità, una sensazione sottile che può oscillare tra la nostalgia e il disagio.
Il paradosso è tutto lì: sappiamo dove siamo, ma qualcosa non torna. Manca il brusio, l’odore, il movimento. Manca l’elemento umano che solitamente rende questi ambienti vivi. Quando viene a mancare, il cervello va in tilt. E si innesca un effetto simile a quello dell’uncanny valley – il disagio che si prova davanti a un robot dall’aspetto quasi umano, ma non del tutto.
Un concetto antico, un fascino nuovo
L’idea di liminalità affonda le radici nella teoria antropologica di Arnold van Gennep e Victor Turner, che la utilizzarono per descrivere i momenti di passaggio nei riti iniziatici: il punto di rottura tra ciò che si era prima e ciò che si sta per diventare. Non è solo uno spostamento fisico, ma anche simbolico. Ecco perché certi spazi ci toccano nel profondo: ci ricordano che siamo sempre, in fondo, in transizione.
L’estetica dell’assenza conquista il web
Negli ultimi anni, questo concetto è esploso nella cultura visiva online. Tutto è cominciato con un’immagine apparsa nel 2019 su 4chan: un corridoio tappezzato di giallo, senza finestre, senza porte. Dietro, una breve storia dell’orrore. Era nato il culto delle backrooms: uno scenario immaginario fatto di stanze infinite, labirintiche, senza uscita, accessibili per “errore” uscendo dalla realtà. Una sorta di bug nel mondo, ispirato al linguaggio dei videogiochi (da cui deriva il termine noclip, usato per attraversare muri e superfici nei giochi digitali).
Le #liminalspaces sono diventate virali. Su Instagram, Reddit, TikTok e YouTube proliferano immagini e video ambientati in palestre scolastiche abbandonate, supermercati chiusi, palazzi degli anni ’80 illuminati da luci fioche. Spesso accompagnati da suoni ovattati, ronzìi elettronici, silenzi surreali. Più che luoghi, diventano mood. Un’estetica dell’assenza che racconta la condizione di sospensione della nostra epoca.
Dalla pandemia alla metafora esistenziale
Durante i mesi più duri del lockdown, abbiamo vissuto tutti – senza volerlo – l’esperienza concreta degli spazi liminali. Vedere le città vuote, i negozi spenti, le piazze silenziose, ci ha fatto capire quanto la nostra percezione dei luoghi dipenda dalla loro funzione sociale. Quando questa funzione sparisce, resta solo lo scheletro architettonico: un guscio vuoto che inquieta proprio perché lo riconosciamo.
Gli spazi liminali, quindi, non sono solo ambienti particolari: sono specchi emotivi, riflessi delle nostre incertezze, simboli di passaggi, trasformazioni e attese. In un mondo che cambia in continuazione, ci troviamo tutti, più spesso di quanto pensiamo, dentro un corridoio vuoto verso il prossimo “noi”.
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