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Politica Internazionale
20 Giugno 2025 - 19:30
Lo Stretto di Hormuz, 33 chilometri di mare tra l’Iran e la penisola omanita di Musandam, è tornato al centro del risiko geopolitico globale. A riaccendere i riflettori su questo passaggio cruciale per il commercio energetico è stata la dichiarazione del parlamentare conservatore iraniano Esmail Kosari: Teheran potrebbe considerare la chiusura dello stretto in risposta all’attacco israeliano. Un’ipotesi che basta, da sola, a far tremare mercati e cancellerie.
Non si tratta solo di una via marittima strategica: lo Stretto di Hormuz è il cuore pulsante dell’energia mondiale. Ogni giorno vi transitano circa 20 milioni di barili di petrolio, pari al 20% del consumo globale. Solo l’Arabia Saudita ne esporta attraverso questo corridoio 5,5 milioni al giorno, circa il 38% del traffico complessivo. A questi si aggiunge un flusso continuo di gas naturale liquefatto, soprattutto dal Qatar.
La configurazione geografica è tanto stretta quanto delicata: le corsie di navigazione, regolate dall’Organizzazione marittima internazionale, sono larghe appena due miglia per senso di marcia. Le petroliere più grandi del pianeta devono quindi attraversare un imbuto marittimo estremamente vulnerabile.
L’Iran controlla la costa settentrionale dello Stretto e sette delle otto isole principali della zona, comprese le contese Abu Musa, Greater Tunb e Lesser Tunb, reclamate dagli Emirati Arabi Uniti dal 1971. La penisola di Musandam, che guarda dalla sponda opposta, è invece spartita tra Oman ed Emirati.
È una configurazione che garantisce a Teheran un controllo de facto sui movimenti navali. Basterebbe poco, secondo gli analisti militari, per rendere il passaggio impraticabile: mine navali, sottomarini, missili antinave. Anche senza un blocco fisico, la semplice minaccia sarebbe sufficiente a fermare le rotte commerciali, far salire alle stelle i premi assicurativi e bloccare la produzione petrolifera nel giro di una settimana. Secondo le simulazioni, servirebbe almeno un mese per ristabilire un corridoio sicuro.
Non è la prima volta che lo Stretto di Hormuz è teatro o epicentro di instabilità. Durante la guerra Iran-Iraq negli anni ’80 furono attaccate oltre 550 petroliere. Più di recente, nel 2019, quattro navi furono sabotate da sommozzatori (gli Stati Uniti puntarono il dito contro Teheran), e l’Iran sequestrò imbarcazioni britanniche e sudcoreane. L’ultimo episodio risale al 17 giugno 2025: una collisione tra due navi dovuta a interferenze sui segnali GPS nei pressi di Bandar Abbas, il principale porto iraniano.
A garantire una fragile stabilità è la presenza militare statunitense: la Quinta Flotta della Marina ha base a Manama, in Bahrein, e conta circa 9.000 uomini. L’ombrello di sicurezza si estende anche alla base aerea di Al Udeid in Qatar – la più grande nel Medio Oriente – e ad Al Dhafra, negli Emirati, da cui operano droni e caccia F-35.
Il vero incubo per i mercati è un blocco prolungato dello Stretto. Gli analisti di Goldman Sachs avvertono che i prezzi del petrolio potrebbero schizzare oltre i 100 dollari al barile. Secondo Ing, si potrebbe arrivare a 120 dollari, mentre le previsioni più estreme ipotizzano un Brent a 350 dollari.
Le alternative non abbondano. Solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dispongono di oleodotti operativi per aggirare lo stretto. L’oleodotto Est-Ovest saudita ha una capacità di 5 milioni di barili al giorno, aumentata temporaneamente a 7 milioni nel 2019. Gli Emirati, invece, possono convogliare fino a 1,5 milioni di barili al giorno verso il terminal di Fujairah, fuori dal Golfo Persico. L’Iran aveva inaugurato nel 2021 il Goreh-Jask, un oleodotto pensato per lo stesso scopo, ma mai utilizzato in maniera operativa.
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