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Economia & Lavoro
01 Maggio 2024 - 08:00
Al netto della situazione di Stellantis e del suo indotto, prima di questo aprile terribile fra cassa integrazione e stop alla produzione, i dati di Unioncamere e ministero del Lavoro dicevano che in Piemonte le assunzioni erano tornate a salire e che ben il 31% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato. Certo, le forme di contratto a tempo determinato e di precariato continuano a essere la stragrande maggioranza, però è l'inversione di tendenza che va colta. E anche il recente rapporto della Cgia di Mestre mostra un trend in salita. Una buona notizia? No, perché avere un posto di lavoro non basta a uscire dalla povertà. E se le imprese assumono con tempo indeterminato, avvisano gli analisti, è perché conviene. C'è un fenomeno che si definisce "lavoro povero": vediamo di che si tratta.
Partiamo dalla definizione di "working poor", ossia i lavoratori poveri. Che non sono solo ed esclusivamente quelli con contratti precari o a basso reddito. L'identikit del lavoratore povero, secondo la relazione dei ricercatori Arianna Gatta, Giovanni Gallo e Massimo Baldini su "Eco", è: maschio, tra i 45 e i 50 anni, con una famiglia composta di tre o quattro persone (non necessariamente i figli: molti nuclei hanno anche anziani a carico, bisognosi di assistenza, una circostanza che spesso distoglie dal lavoro un membro della famiglia stessa).
Per individuare la reale portata del fenomeno, dobbiamo inquadrare il working poor nel concetto più esteso di famiglie povere. Perché gli indicatori che vengono usati dagli analisti sono quelli del reddito famigliare e l'impegno lavorativo per la semplice sussistenza. Per essere molto schematici, possiamo dire che il lavoratore povero è colui che lavora almeno 7 mesi l'anno per mantenere la famiglia; una famiglia è povera se il suo reddito è non superiore al 60% della media nazionale. Nel 2022 la soglia era di 11.155 euro.
La condizione di povertà si scontra con gli aumenti dei prezzi e la loro incidenza sul bilancio famigliare. L'indagine Istat Silc (che sta per "statistic on income and living conditions") ci racconta questi dati. Secondo l'Eurostat, i prezzi in Italia sono cresciuti del 31% fra il 2007 e il 2022, i salari soltanto del 17%. E secondo l'ufficio parlamentare di bilancio, il prezzo della spesa è cresciuto del 14% per il 20% dei lavoratori poveri; la metà per il 10% dei più ricchi. Una incidenza ben diversa, anche a fronte di un dato "democratico", più livellante: ossia che il tenore di vita, nel biennio 2021-2022, si è ridotto per il 5% delle famiglie italiane. Ma, chiaramente, per quelle più povere l'incidenza è stata significativa.
Le ragioni di questo? I fattori sono molti: mancanza di specializzazione del lavoratore, crisi delle aree industriali più fortemente radicate - al nord, ma anche al sud, con particolare incidenza del settore automotive -, un maggiore indice di non occupazione fra le donne, se non come precariato o con basso reddito. Ma anche nel settore delle professioni più remunerate, o delle competenze maggiori, l'incidenza dei prezzi ha provocato problemi economici anche seri. Ne è una dimostrazione l'abbassamento della capacità di risparmio in Italia.
E cosa c'entra, come dicevamo prima, l'aumento dei contratti a tempo indeterminato? Si spiega proprio con il costo del lavoro: i salari non sono aumentati in rapporti all'inflazione e di conseguenza il costo del lavoro appare oggi, in proporzione, più basso di qualche anno fa. Dunque, le imprese hanno maggiore convenienza ad assumere. Ma l'agognato posto fisso, il contratto non sono più una garanzia di stabilità economica.
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