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LA STORIA

Disabile agli arresti: «Vorrei lavorare» ma i magistrati non la fanno uscire

Ha trovato un impiego per cui risulta idonea, ma le sue istanze sono state continuamente respinte

Disabile agli arresti: «Vorrei lavorare» ma i magistrati non la fanno uscire

Ha trovato un impiego per cui risulta idonea, ma le sue istanze sono state continuamente respinte

È agli arresti domiciliari e trova un lavoro per cui è idonea ma la burocrazia rischia di farglielo perdere.
Andiamo con ordine: la storia di Teresa (nome di fantasia perché la signora ci ha chiesto di rispettare l’anonimato) comincia tanti anni fa. A causa di una malattia perde la madre a cui era molto legata, Teresa sprofonda nella depressione: sbaglia, un errore legato a poche centinaia di euro ma comunque un errore e viene condannata a 8 mesi di detenzione domiciliare.
Teresa è una donna a cui è stata ricostruita praticamente tutta la faccia, in seguito alle botte prese da un uomo che, in mezzo alla strada, l’ha riempita di calci e pugni.

È disabile all’80%, vive con sussidio di 340 euro per la sua invalidità e 700 di assegno di inclusione essendo disoccupata. La spesa gliela porta la protezione civile: di affitto la donna spende più di 630 euro al mese, a cui vanno sommate bollette, un finanziamento aperto per la sua operazione maxillofacciale, alcuni farmaci per la sua patologia. Perché come si legge tra i vari documenti che ci ha mostrato, Teresa è una donna che soffre di una forte depressione.
La sua intervista è durata due ore: non ha smesso di piangere nemmeno per un minuto, ha mostrato faldoni di fogli. «Non voglio una riduzione della pena, voglio pagare i miei sbagli, chiedo solo di lavorare». In effetti qualche mese fa arriva un raggio di luce su questa storia: Teresa è una oss e ha trovato una clinica che è disposta ad assumerla, nonostante lei non sia più giovanissima (ha 48 anni) e sia disabile.


Così comincia una trafila fatta di istanze, visite, controlli, pratiche burocratiche, fogli su fogli di carta che ci mostra mentre racconta. «Ho cominciato a mandare istanze scrivendole da sola, in quanto l’avvocato che avevo - e mi era stato assegnato d’ufficio - a novembre ha sollevato l’incarico. Poi mi sono fatta aiutare dal Uepe». L’Uepe è l’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale a Torino.
Li abbiamo raggiunti al telefono, ci viene confermato cosa racconta Teresa «ma purtroppo noi più che cercare di aiutare la signora non possiamo perché il permesso finale spetta al magistrato di sorveglianza che ha in carico il caso».


E dire che Teresa di permessi ne ha avuti: in questi mesi si è sempre comportata bene «e sono amministratrice per conto di mio padre, ricoverato in struttura. Mai avuto problemi con i carabinieri, anzi, vorrei ringraziarli in quanto sono sempre stati gentili quando sono venuti a notificarmi atti, fare controlli o quando li ho raggiunti io perché necessitavo di loro». E adesso, la speranza di un lavoro. La prima istanza le viene respinta perché secondo il magistrato “non è idonea”, come si legge.
Teresa ne prepara un’altra, ci allega la bozza del contratto, l’impegno della clinica ad assumerla, il foglio della Medicina del Lavoro che la ritiene idonea alla mansione, documentazione che attesta quante ore lavorerebbe e invia persino il percorso da fare con i mezzi pubblici da casa a lavoro. Si fa aiutare dall’Uepe perché l’ istanza sia perfetta. Ma ancora, un rigetto. «Il magistrato vuole il contratto firmato. Non posso firmare il contratto finché non ho il permesso. E avendo già firmato la promessa d’incarico, rischio di incorrere in sanzioni penali nel caso mi tiro indietro» spiega. Un cane che si morde la coda.


Teresa il 17 febbraio dovrebbe prendere servizio alla clinica. «È l’unica maniera per risollevarmi tra debiti e depressione. Non voglio uno sconto di pena. Voglio solo la dignità di un lavoro, non vivere di sussidi».
«Pur non volendo commentare il caso della signora Teresa, che immagino abbia sue peculiarità, osservo come non raramente i Magistrati di Sorveglianza non conoscano personalmente, pur potendolo fare, i detenuti. Questo rende complicato comprendere appieno le singole situazioni personali. Non solo, ma spesso i tempi delle decisioni sulle richieste di permesso sono incompatibili con la necessità di modulare tempestivamente l’esecuzione della pena. Si tratta di due tra i molti aspetti che mi auguro possano migliorare nel prossimo futuro» osserva l’avvocato Roberto Capra, presidente della Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte e della Valle d’Aosta.

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