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Ambulatori chiusi

L'unica dottoressa (per 4 paesi) in pensione: ecco come 600.000 piemontesi restano senza medico

Il caso in Canavese è la spia di una emergenza sanitaria. Il costo sociale e umano per anziani malati e famiglie

ambulatori chiusi canavese

Nonna Bettina ha 89 anni e adesso non può più curarsi nel suo paese. Perché l'ambulatorio resterà chiuso, ora che la dottoressa va in pensione. Bettina è una signora simpatica, lucida, ma ha i suoi acciacchi, la pressione dispettosa e deve usare un bastone dopo una brutta frattura del femore. Ha una nipote, lì in paese, che la aiuta e la accompagna alle visite in auto. Ma anche lei, adesso, sta per passare i 70 anni. Cosa faranno?

Questa storia, così simile a migliaia di altre, arriva dal Canavese, tra colline e paesi nel territorio della Asl TO4 in questi giorni sotto i riflettori di uno scandalo giudiziario, come vi abbiamo raccontato, partito dall'Ospedale Civico di Settimo. Ma in questo scandalo, con appalti per 12 milioni di euro a carico della sanità pubblica, non si intravedono i veri costi (anche umani) della sanità piemontese malata. Ecco la cronaca.

A San Martino Canavese, Perosa, Vialfrè e Scarmagno, circa 2.300 abitanti in totale, l’unica dottoressa di medicina generale è andata in pensione e le luci degli studi sono spente. Anziani soli, come Nonna Bettina, famiglie senza auto, patologie croniche che non aspettano: basta questo per comprendere perché i sindaci parlino di “sanità territoriale dimenticata”. Ma non è un caso isolato: il problema, al momento, riguarda 600mila piemontesi circa.



Il caso Canavese: ambulatori chiusi e un appello all'Asl TO4
Gli ambulatori dei quattro comuni sono chiusi e i pazienti, per una visita o una prescrizione, devono raggiungere Ivrea o Strambino. Un percorso non banale per chi dipende dai mezzi pubblici o dal passaggio di un parente. Nel frattempo, i medici dei paesi vicini hanno già raggiunto il massimo dei pazienti assegnabili: non possono prendere in carico nuovi assistiti.

I sindaci dei quattro comuni si sono rivolti all'Asl TO4 per  il ripristino del servizio o, almeno, l’attivazione di un ambulatorio unico condiviso. La richiesta è concreta: utilizzare locali già disponibili e garantire la presenza di un medico a rotazione, affiancato da un sistema di telemedicina assistita per le attività programmate. Eppure, “per ora, nessun medico ha accettato di subentrare”.

Il Piemonte spaccato in due
Il caso del Canavese non è un episodio isolato, ma la spia di una crisi che attraversa le aree collinari e montane del Piemonte: valli di Lanzo, parte del Cuneese, la cintura più fragile della provincia di Torino. Nella sola provincia di Torino, l’età media dei medici di base supera i 59 anni. È un dato che annuncia la tempesta: un’ondata di pensionamenti che rischia di svuotare la sanità di prossimità.

I numeri di uno studio della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG), basato su una proiezione che parte dal 2017 e arriva fino al 2032, delineano il quadro con crudezza: entro il 2032 andranno in pensione 2.627 medici su 3.335 attualmente in servizio in Piemonte, pari al 78,7% del totale. Quasi quattro su cinque. E al loro posto arriveranno 1.920 nuovi medici di medicina generale. Un divario di 707 camici bianchi che già oggi determina l’assenza dell’assistenza primaria per 639.600 cittadini piemontesi. E nel 2031 potrebbero essere 847.200 i cittadini senza medico.

Un ricambio lento, faticoso, ostacolato da due fattori: la riduzione dei medici formati nei corsi regionali e, soprattutto, la scarsa attrattiva dei piccoli centri, dove i giovani professionisti faticano a trasferirsi. Perché restare in un ambito periferico, con più chilometri da percorrere e meno servizi di supporto, quando in città si trovano studi associati, reti professionali e carichi di lavoro più gestibili? Il risultato è un Piemonte a due velocità: da un lato le città, dove il servizio, pur sotto pressione, resta accessibile; dall’altro colline e valli, dove ogni pensionamento apre un vuoto difficilmente colmabile.


I costi umani della carenza
La fotografia sociale è nitida. In molte zone, l’unico presidio rimasto è la Guardia medica, con copertura oraria limitata. Per il resto, si improvvisa: farmacie che tamponano richieste, consulti telefonici per un rinnovo ricetta, spostamenti organizzati tra parenti. C’è chi rinuncia alle visite ritenute “meno urgenti” e chi posticipa controlli essenziali. Ma può un controllo rinviato trasformarsi in un’urgenza?

Quando i medici di città arrivano a gestire fino a 1.500 assistiti ciascuno, ben oltre le soglie ottimali, l’intero sistema si irrigidisce e il rischio è che il pronto soccorso diventi la porta d’ingresso per bisogni che dovrebbero trovare casa sul territorio, con conseguente affollamento dei dipartimenti di emergenza per codici bianchi o verdi. 

Case di comunità e incentivi ai giovani
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha acceso molte speranze, prevedendo il potenziamento della sanità di prossimità con la creazione di Case e Ospedali di Comunità. Ma i cantieri del futuro non risolvono l’urgenza del presente: i tempi sono lunghi e, intanto, gli studi restano chiusi. 

A livello locale, c'è chi pensa incentivi economici, alloggi disponibili, rimborsi per gli spostamenti. Misure che, accanto a borse di studio vincolate ai territori, possono rendere più attrattiva la medicina di base nelle aree periferiche.

Gli esperti indicano anche la via degli ambulatori associati e della telemedicina: lavorare in rete, condividere oneri e servizi, ridurre l’isolamento professionale. E poi c’è un tema di regia: una distribuzione territoriale più equilibrata degli incarichi, capace di coprire le aree più scoperte senza sovraccaricare quelle urbane. Perché la sanità di prossimità non è un lusso: è l’infrastruttura che tiene in vita i paesi.


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