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L'approfondimento

Dentro e fuori la Comunità ebraica, un confronto su cosa significa essere ebrei oggi

Le tante voci dell’ebraismo torinese: la complessità di un’appartenenza

Dall'antichità alla sinistra politica moderna: l'evoluzione dell'odio verso gli ebrei

Come vivono oggi gli ebrei torinesi ciò che accade in Israele e Palestina, ma anche Cisgiordania? La domanda apre inevitabilmente un territorio scivoloso, in cui identità, memoria e politica si intrecciano.

Dentro e fuori la Comunità ebraica, si muove una pluralità di voci che cercano di tenere insieme dolore, critica e responsabilità.

Giovanna Garrone, attivista del Laboratorio ebraico antirazzista (a Torino c’è un gruppo di persone che si riconosce nel Laboratorio attivo in diverse città italiane), racconta di aver deciso in questi anni di «parlare anche come ebrea». Un gesto non scontato, radicato nella storia familiare segnata dalla Shoah. «Proprio perché il mio legame con l’ebraismo nasce da lì – dice – non posso tacere di fronte a una violenza sistematica esercitata contro un gruppo in quanto tale».

Tiene a precisare, però, che parla come cittadina, essere umano che assiste a simili atrocità. Per lei la questione è doppia: la necessità di denunciare le politiche israeliane e il rischio di un’identificazione totale tra Israele e il mondo ebraico. «È urgente dare voce a chi, sia in Israele che Palestina, resiste senza violenza e costruisce coesistenza – racconta – come Parents Circle, ma queste realtà non arrivano mai nel nostro discorso pubblico».

Per Giorgio Canarutto, del Laboratorio ebraico antirazzista – erede di reti ebraiche già attive dagli anni Duemila – c’è una difficoltà nel dire apertamente “Israele sbaglia” senza sentirsi chiamare traditori. Ricorda un’estate trascorsa in Cisgiordania, nel 2024, nel villaggio beduino di Umm Al-Khair, circondato da colonie israeliane. «Un anno dopo la mia visita, il capo del villaggio è stato ucciso da un colono. Nessuna condanna, anzi, in questi giorni sono state ordinate nuove demolizioni. È la distruzione lenta di un modo di vivere», racconta. Da quell’esperienza nasce la convinzione che «senza un’azione esterna, nulla cambierà».

Giacomo Ortona, ricercatore del Cern, non nega invece una piccola «crisi personale», dopo il 7 ottobre 2023. «È diventato impossibile tenere la mia identità ebraica in un cassetto». Per lui l’uso politico dell’ebraismo del governo israeliano ha provocato un corto circuito: «Israele era nato per impedire che accadesse di nuovo. Oggi è doloroso riconoscere che sta perpetuando ciò che avrebbe dovuto prevenire». Ortona difende l’uso del termine «genocidio» e sostiene forme di pressione internazionale, come il boicottaggio accademico, «misura estrema ma necessaria per interrompere la normalità di un regime di apartheid».

Più cauta è Bruna Laudi, presidente del Gruppo di studi ebraici della Comunità torinese. Non nega la sofferenza palestinese, ma invita a non ridurre tutto a parole contese. «Chi muore sotto le bombe non si chiede come si chiama quella guerra», dice. Dall’interno della Comunità osserva con preoccupazione la radicalizzazione del dibattito pubblico. «Mi colpisce la violenza delle parole, anche in ambienti che dovrebbero favorire il confronto culturale. È come se non riuscissimo più a guardare alla sofferenza senza prima schierarci. L’unicità della Shoah sta nella sua programmazione industriale e scientifica, ma ciò non diminuisce l’orrore di ciò che accade oggi».

Eppure riconosce la necessità di guardare con lucidità anche alle responsabilità israeliane: «Non possiamo ignorare la degenerazione in Cisgiordania, ma nemmeno rispondere con superficialità».

Voci diverse, che rivendicano la loro pluralità, ma da cui si coglie una tensione comune: la necessità di un equilibrio tra la propria appartenenza e l’espressione del dissenso.

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