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Lavoro e retribuzione
26 Maggio 2025 - 15:47
Il conto alla rovescia è partito. Dal 7 giugno 2026, tutti gli Stati membri dell’Unione europea dovranno aver recepito – e attuato – la direttiva sulla trasparenza retributiva, pensata per contrastare le diseguaglianze (di genere e non solo) e riportare un po’ di giustizia salariale nei luoghi di lavoro.
A poco più di un anno dalla scadenza, però, l’Italia è ancora lontana dal traguardo. Anzi, rischia di arrivare con l’affanno e l’ennesima riforma scritta a metà. Come spesso accade.
Secondo Indeed, colosso internazionale degli annunci di lavoro, alla fine del 2024 solo il 19,3% delle offerte italiane conteneva informazioni sugli stipendi. Per intenderci: meno della metà rispetto alla Francia (50,7%), e quasi un terzo rispetto al Regno Unito (69,7%). Numeri che fotografano una cultura aziendale ancora chiusa, opaca, refrattaria al cambiamento.
Il problema non è solo normativo. È prima di tutto culturale.
Meno di un’azienda su due (43%) dichiara di avere una politica di trasparenza salariale, e appena il 40% accetta che i dipendenti parlino liberamente delle proprie buste paga. Il motivo? Paura.
Paura che i candidati possano “confrontare” troppo, che i colleghi scoprano le disparità interne, che le imprese concorrenti possano “spiare” i propri assetti economici.
Il rischio, dicono, è perdere potere. Ma la verità è che il vero rischio è restare fermi in un sistema che non tutela, non valorizza e non premia in modo equo.
Eppure, i lavoratori italiani sono pronti.
Il 71% degli intervistati da Indeed preferisce candidarsi per aziende che dichiarano apertamente gli stipendi. Non solo: il 60% chiede trasparenza anche sul posto di lavoro attuale, mentre quasi la metà si sente sottopagata.
Il malessere cresce in silenzio, spesso all’ombra di una scrivania condivisa con chi guadagna molto di più, magari senza merito. Il risultato? Sfiducia, demotivazione, e un mercato del lavoro che sembra premiare l’opacità invece del merito.
C’è chi, in Europa, è già avanti.
L’Austria richiede obbligatoriamente la pubblicazione degli stipendi nelle offerte di lavoro. Svezia, Irlanda e Polonia stanno lavorando a normative simili. Nel frattempo, in UK, più di due terzi degli annunci contengono già dettagli retributivi.
E noi? Ancora alle prese con contratti collettivi da aggiornare, regole non uniformi, e salari che – secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro – sono scesi dell’8,7% tra il 2008 e il 2024, il peggior dato tra i Paesi del G20. Un record di cui non andare fieri.
Non è solo una questione di genere
Se è vero che la trasparenza salariale è al centro della strategia Ue per la parità di genere (2020-2025), è altrettanto vero che la questione tocca anche il piano sociale ed economico.
Chi guadagna meno ha diritto a sapere se, come e quanto viene trattato diversamente da un collega nella stessa posizione. Nei lavori manuali e meno retribuiti, paradossalmente, la trasparenza è già più alta, grazie ai contratti collettivi e a condizioni più standardizzate.
Ma è nei settori medio-alti, nei ruoli manageriali e nelle professioni qualificate che si annidano le storture peggiori. Qui la meritocrazia è spesso una promessa non mantenuta, e il silenzio retributivo diventa un’arma contro i lavoratori.
Verso il 2026: obbligo o opportunità?
C’è chi teme la direttiva, e chi la vede come un’occasione per resettare il sistema.
Lisa Feist, economista dell’Hiring Lab di Indeed, lo dice chiaramente: l’obiettivo è rompere l’invisibilità del salario, renderlo chiaro, discutibile, confrontabile. Ma perché funzioni, serve una spinta forte dai governi nazionali. E un cambio di mentalità profondo da parte delle imprese.
Il tempo stringe. Il 2026 non è poi così lontano.
E se l’Italia vuole colmare il suo gap salariale, occupazionale e democratico, la trasparenza retributiva non può più essere vista come un fastidio da burocrati. Ma come uno strumento concreto per costruire equità, fiducia e progresso.
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