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Moda e rifiuti: l’iniziativa torinese Slow Fiber contro il fast fashion

Secondo le stime, circa la metà dei capi prodotti dall’industria dell’abbigliamento rimane invenduta

Moda e rifiuti

Secondo le stime, circa la metà dei capi prodotti dall’industria dell’abbigliamento rimane invenduta

Secondo le stime, circa la metà dei capi prodotti dall’industria dell’abbigliamento rimane invenduta. Una parte viene destinata ad attività di beneficenza, ma gran parte dei volumi viene esportata verso Paesi del Sud globale, come Africa, India e Cile. Lì solo una quota limitata dei capi trova collocazione commerciale, mentre la maggioranza finisce in discarica, generando un problema ambientale crescente.

La difficoltà è legata anche ai costi: il riciclo risulta più oneroso della produzione di nuovi indumenti. Il modello prevalente, quello del fast e ultra fast fashion, incentiva la riduzione dei costi di produzione e il ricambio rapido delle collezioni. Questo meccanismo produce tessuti di qualità inferiore rispetto al passato e induce i consumatori a disfarsi degli abiti dopo pochi mesi, alimentando un ciclo di spreco.

Il riciclo dei capi a basso costo è spesso non sostenibile, sia perché i materiali risultano meno adatti a essere rigenerati, sia perché i costi del processo superano il valore del prodotto ottenuto. La questione non riguarda quindi solo i singoli comportamenti, ma l’intero modello economico alla base della filiera tessile.

A Torino è nata l’iniziativa Slow Fiber, promossa dall’imprenditore Dario Casalini, che propone un approccio alternativo fondato su cinque principi: buono, pulito, giusto, sano e durevole. “Buono” significa costruire una filiera etica, valorizzando fornitori e territori. “Pulito” richiama la necessità di ridurre l’impatto ambientale in ogni fase della produzione. “Giusto” riguarda la dignità del lavoro e la tutela delle competenze locali. “Sano” impone il rispetto rigoroso delle normative sull’uso delle sostanze chimiche, evitando pratiche non consentite nei Paesi di origine. Infine, “durevole” indica il rifiuto del fast fashion a favore di capi pensati per resistere nel tempo, riparabili e meno soggetti ai trend.

La possibilità di affermazione di questo modello dipende dal grado di consapevolezza di consumatori e istituzioni e dall’eventuale adesione di grandi marchi della moda. La sfida è analoga a quella già intrapresa in altri settori, come quello alimentare, per ridurre gli sprechi e sostenere ecosistemi produttivi locali.

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