Si può misurare una vita manageriale con un cronometro di fabbrica e una bussola di mercato? Nel caso di Gian Mario Rossignolo, scomparso ieri a 95 anni, la risposta sta nel passo lungo di una carriera che ha attraversato Torino, capitale dell’automobile, fino ai saloni internazionali e alle stanze della telefonia, per poi inciampare fragorosamente nel crack De Tomaso. Una parabola italiana, fatta di intuizioni precoci, sfide accese, e un epilogo amaro. Il suo nome resta legato a doppio filo a Umberto Agnelli, alla Lancia, alla Zanussi, a Telecom Italia: un percorso che ne ha scolpito il profilo di Cavaliere del Lavoro e, insieme, la figura controversa di un imprenditore capace di rischiare fino all’azzardo.
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Dalla provincia al Lingotto Nato a Vignale Monferrato, in provincia di Alessandria, nel 1930, Rossignolo si forma all’Università di
Torino in economia e commercio dopo aver abbandonato il Politecnico, per ragioni familiari, e aver mosso i primi passi in banca. L’ingresso in Fiat è l’innesco di una traiettoria in rapida accelerazione: lo trasferiscono alla filiale di
Novara, di giorno nelle vendite, la sera a
Milano, per un corso di marketing. È il dettaglio che spesso fa la differenza: comprendere che il prodotto non finisce in officina, ma comincia sul mercato.
Nel 1967 diventa direttore della divisione commerciale autoveicoli; due anni più tardi è responsabile della pianificazione aziendale. Negli anni Settanta entra nel comitato direttivo e assume la guida di una divisione nei prodotti diversificati. Nel 1975 prende in mano la componentistica: un tassello chiave, dove la catena del valore si gioca vite e margini.
La rivoluzione del prodotto In un’epoca – tra gli anni Settanta e Ottanta – in cui “le auto si vendevano da sole” e la tecnica pesava più del marketing, Rossignolo intravede una strada diversa. “Rossignolo,” spiega chi lo ha conosciuto, “non era un tecnico in senso stretto, ma un manager con una consapevolezza tecnica fuori dal comune”. “Dalla metà degli anni Ottanta in poi, grazie a Rossignolo, cambiò tutto. Nacque la direzione prodotto, che divenne centrale perché raccoglieva le esigenze del cliente e le traduceva in specifiche per gli ingegneri”. In quelle parole c’è il nocciolo della sua impronta: mettere in relazione lo sviluppo meccanico con l’identità del prodotto. Non un maquillage commerciale, ma un cambio di paradigma. Quanta parte dell’automotive italiano deve a questo passaggio? Il fatto che molti costruttori, da lì in poi, abbiano istituzionalizzato la “voce del cliente” dentro i processi ingegneristici indica che il solco tracciato era quello giusto.
Gli scontri ai vertici e la stagione Lancia Il carattere non gli mancava. Nel 1975, da responsabile della componentistica,
Rossignolo entra in rotta di collisione con Carlo De Benedetti, allora alla guida della Fiat, quando sostiene che in
Europa non ci sia più un futuro industriale per l’auto. Una tesi che, pronunciata nel cuore del continente automobilistico, suona come un’eresia. Nel 1977 viene nominato
amministratore delegato e direttore generale della Lancia. Ma alla fine del 1979 lascia, rassegnando le dimissioni per divergenze con il nuovo responsabile del gruppo,
Cesare Romiti. La sua esperienza nell’orbita
Agnelli – dove è ricordato come storico collaboratore di Umberto – si chiude così, ma la carriera no. Passa al gruppo industriale svedese Wallemberg, dove in Italia segue SKF Industrie, Industrie
Zanussi, Atlas Copco, Ericsson e altre società, ricoprendo incarichi fino al 2002. In quegli anni affianca anche attività imprenditoriali con Prima Industrie S.p.A., Idea SpA e ACC, e figura come ex presidente del cda di
Zanussi: un mosaico di ruoli che racconta la solidità del suo network industriale.
Pordenone, Seleco e l'Europa del consumo Nel 1991 guida, insieme al manager svedese Hans Werthén, la cordata che rileva la
Sèleco di
Pordenone, storica azienda dell’elettronica di consumo. Ne diventa azionista di riferimento e presidente fino al 1993. È un cambio di settore che mantiene però la stessa bussola: capire il prodotto, presidiare la filiera, innovare l’offerta. Anche qui, la domanda resta la stessa: quanto può la cultura dell’automotive fertilizzare altri settori manifatturieri? Nel caso di Rossignolo, quanto basta per guadagnare credito tra industria e finanza.
Telecom Italia, tra privatizzazione e Opa Nel 1998 arriva la presidenza di
Telecom Italia. Un mandato breve – dal 1997 al 1999 – ma in un contesto scosso: la
privatizzazione, l’
Opa di Roberto Colaninno all’orizzonte, la trasformazione del mercato. A fare da sfondo, il tumulto globale delle tecnologie: l’anno prima
Apple aveva chiuso con un rosso superiore al miliardo di dollari, il board guidato da Gil Amelio aveva valutato anche la strada di Jean-Louis Gassée e della piattaforma BeOS, prima di richiamare Steve Jobs. Segnali che il vento era cambiato per tutti. Rossignolo entra in Tim con la consapevolezza di una stagione nuova, in cui la rapidità delle scelte conta quanto la loro direzione.
Il sogno De Tomaso e la caduta
Il 2009 è l’anno del ritorno alle auto. La sua IAI – Innovation in Auto Industry S.p.A. – acquista a novembre il marchio De Tomaso, storica casa italiana di sportive e lusso, e cambia nome in De Tomaso Automobili S.p.A. L’operazione include l’acquisizione di strutture ex-Delphi a Livorno e ex-Pininfarina a Grugliasco. Nel 2011, al Salone di Ginevra, debutta la concept Deauville: l’idea di un rilancio che prova a conciliare tradizione e nuova domanda. Ma la realtà industriale è meno docile dei render: l'auto non vedrà mai la luce, i debiti si accumulano, nel 2012 l’azienda fallisce. E quasi 900 lavoratori restano a spasso.
Qui la parabola diventa crepa. Rossignolo, insieme al figlio Gianluca, viene condannato per bancarotta fraudolenta e truffa ai danni della Regione Piemonte e del ministero dell’Economia: 5 anni e 6 mesi per il padre, 4 anni e 10 mesi per il figlio, oltre a un risarcimento di 5 milioni di euro. Il sogno si rovescia in un monito: senza basi industriali solide e governance all’altezza, il marchio non basta a tenere insieme progetto, capitale e tempo.
Ua eredità complessa Cosa resta, allora, di
Gian Mario Rossignolo? L’immagine di un manager capace di leggere prima di altri l’equilibrio necessario tra area tecnica e area prodotto; di uno storico collaboratore di
Umberto Agnelli che ha attraversato – talvolta correndo, talvolta inciampando – stagioni decisive dell’industria italiana. Non era un tecnico, dicono i colleghi; ma la sua consapevolezza tecnica era fuori dal comune. E la sua biografia si intreccia con la vocazione di
Torino, città che per decenni ha pensato, prodotto e raccontato automobili. L’altra faccia è quella del rischio spinto oltre il bordo, con il dossier
De Tomaso a segnare un crinale di responsabilità e colpe, sancito nelle aule giudiziarie. In mezzo, tantissimi nomi e luoghi –
Novara,
Milano,
Pordenone,
Livorno,
Grugliasco – e una trama di aziende che compongono il ritratto di una classe dirigente forgiata nell’officina e messa alla prova dalla finanza, dal marketing, dalla
globalizzazione. Forse la sua storia è un promemoria per chi oggi guida l’industria: la tecnologia senza cliente è cieca, ma il cliente senza industria è muto. Servono entrambi, allo stesso tavolo, con tempi, risorse e responsabilità che fanno la differenza tra un rilancio e un crack.