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L'approfondimento
21 Agosto 2025 - 08:48
I canili, a Torino e provincia, sono pieni. Tutti. Ogni box occupato. Ma non è un’emergenza nuova, né una crisi d’estate. È un problema strutturale, che parte da più lontano e ha radici profonde, a volte ignorate, altre solo mal gestite. «Il canile migliore è quello che non esiste». Non è uno slogan, è la sintesi amara — e lucida — di Fiodor Verzola, educatore cinofilo, assessore (anche) alle politiche animaliste di Nichelino, e padre del Daspo cinofilo, misura che ha fatto parlare di sé, nata per tutelare gli animali e intervenire in modo preventivo sui maltrattamenti. E di prevenzione Verzola parla da anni: come materia dimenticata. Anzi, mai davvero introdotta. «Prima di occuparsi di svuotare i canili, bisogna preoccuparsi di non riempirli». Il dato più recente — 142 ingressi e 65 abbandoni — non racconta tutto. Anzi, è lì che inizia la lettura vera, come spiega Verzola: «Non sono più gli abbandoni, per lo meno come li intendevamo. Non ci sono più solo persone che lasciano il cane in strada dopo essere scese dalla macchina. Oggi ci sono due problemi diversi».
Fiodor Verzola
Da una parte ci sono i cosiddetti "casi sociali". Cani che arrivano in canile perché chi li ha non può più tenerli. «Mutano le condizioni economiche, sociali, sanitarie. Si perde il lavoro, la casa, ci si ammala. Queste non sono persone da colpevolizzare. Chiedono aiuto con consapevolezza. Non è abbandono, è fragilità». Dall’altra parte ci sono le rinunce di proprietà. Ed è qui che Verzola lancia il suo allarme più forte. «La motivazione unica secondo la quale i canili sono al collasso è l'incapacità per inconsapevolezza cinofila. Avere un cane non è un diritto. Non tutti dovrebbero poter avere un cane. Non tutti dovrebbero poter avere qualsiasi tipo di cane». Prendere un cane, oggi, è fin troppo facile. Non serve nessuna competenza, nessuna preparazione. Eppure, ricorda Verzola, il cane «è un essere vivente con una morfologia comportamentale vastissima. Risponde agli stress in modo specifico. Ma viene portato a casa senza che nessuno sia preparato né all’ordinario, né all’imprevisto». I risultati sono noti.
Soprattutto con i molossoidi o in particolare i terrier di tipo bull, (la maggior parte dei cani nei box, ndr) come i pitbull e i loro incroci. «Completano lo sviluppo e iniziano a manifestare comportamenti tipici della specie, come l'aggressività intraspecifica. Poi le persone non sanno gestire. E arrivano le disgrazie. Cani che scappano, che azzannano altri cani o persone. E a quel punto la rinuncia diventa automatica. Ma non è così che dovrebbe andare». A Nichelino, ad esempio, la rinuncia non è automatica: «Se qualcuno viene da noi non è che prendiamo il cane e basta. Inserire un animale nel proprio nucleo familiare significa prendersene la responsabilità a 360 gradi. Diverso è se quel cane, per il suo stesso benessere, deve stare in canile. Ma è bene distinguere i casi di fragilità sociale da quelli di incompetenza». Una parte del problema, oggi, si chiama emergenza abitativa. Chi finisce in strada, spesso, deve separarsi dal proprio cane. «In molte strutture di co-housing i cani non possono entrare. Allora finiscono in canile. I tempi burocratici sono lunghissimi, e così si trasformano in rinunce di proprietà. Eppure il cane ha diritto a una seconda possibilità».
Proviamo a citare gli Asili Notturni di Sergio Rosso, che a Torino accolgono i cani con i loro padroni. «E quanti posti ci sono? Quattro box? Troppo pochi, per adesso. Un'opportunità importante però» risponde l'assessore, spezzando una lancia verso la possibilità innovativa. L’altra faccia del collasso dei canili è la fatica — a volte l’impossibilità — di adottare un cane attraverso i canali ufficiali. Troppi ostacoli, troppi passaggi, troppa invadenza. Visite al box, poi a casa, spesso condotte da volontari senza formazione tecnica. Con le migliori intenzioni, certo, ma senza competenza. E allora la gente, come racconta chi ha scelto di adottare un animale dal Sud, si rivolge altrove. Il "altrove" si chiama staffette: meccanismi paralleli, presenti online e sui social, che in cambio di una somma (tra i 50 e i 200 euro) fanno arrivare cani da Sud a Nord. Carlotta, ad esempio, ha adottato Luna così: «Ci è costato 200 euro, arriva dalla Puglia. L’abbiamo vista in una foto, ci ha inteneriti. Quando è scesa dal furgone eravamo emozionati, ma poi ci siamo resi conto che era un cane molto territoriale, un incrocio con un maremmano. Ci abbiamo messo mesi per inserirla. Nessuno ci aveva chiesto nulla, né chiesto l’Isee. Per quanto ne sapevano potevo essere una serial killer». Altri non hanno avuto la stessa pazienza. Il fratello di Luna, racconta Carlotta, oggi è in canile: «Non andava d’accordo col bambino piccolo. Lo hanno riportato indietro».
E qui Verzola è netto: «Io non ho statistiche ufficiali, ma sono profondamente contrario alle staffette. Ho avuto a che fare con questi cani. Spesso sono fobici, hanno stereotipie importanti. Vengono sradicati da contesti poveri di stimoli e portati in città piene di rumori, luci, movimenti. Non sono gestibili. Con il rischio che come spesso avviene i cani scappino appena messi a terra. Perché le consegne avvengono ancor più spesso fatte in contesti potenzialmente e pericolosi come gli autogrill, sottoponendo il cane a un enorme stato di stress. Poi ovviamente ci sono anche alcune realtà che lavorano bene, poche ma ottime, legate al mondo di volontariato e staffette». Ma in effetti, spesso i cani che arrivano al Nord sono traumatizzati.
Come è successo a Giacomo ed Enza, che avevano chiesto un cane in canile e si sono sentiti dire che non erano idonei. «Così ci siamo rivolti a una staffetta. Era un momento delicato, avevamo perso il nostro primo figlio. Toro, il cane, è scappato appena sceso dal furgone. Poi è rimasto per settimane sotto il tavolo. Per rieducarlo abbiamo speso 3000 euro. Altro che 50». In molti casi, oggi, si sceglie un cane come si scorrerebbe un profilo su un'app di dating: in base a una foto, a un colpo d'occhio, a un impulso emotivo. Ma il rischio è quello di dimenticare tutto il resto: la specie, le esigenze, la gestione, il contesto.
«Molti molossi, anche da adulti, mantengono tratti morfologici simili a quelli di un cucciolo. Ed è lì che si innesca l'effetto "Bambi", da accudimento. Ma non è così che si sceglie un cane», sottolinea Fiodor Verzola. Intanto, con i trasferimenti massicci da Sud a Nord, si muovono anche le patologie. «In Piemonte oggi abbiamo malattie che prima non c’erano. La filaria. La leishmaniosi. Sono malattie tipiche di altri climi, e sono aumentate con gli arrivi incontrollati». Quanto al business delle staffette, Verzola preferisce non sbilanciarsi: «Non ho le competenze per parlarne. Io mi occupo del benessere del cane. E mi chiedo: quel cane, stava meglio al Sud, magari in uno stato di semi-libertà? O sta meglio in una metropoli dove il padrone lo porta fuori solo per i bisogni fisiologici?». Il tema resta sempre quello: consapevolezza. «L’adozione è tale solo se consapevole. A prescindere dal periodo dell’anno. C’è chi dice che Natale non sia un buon momento, ma sono manfrine. I cani vengono abbandonati se scelti inconsapevolmente. Punto». Poi c’è un fronte ancora più insidioso: le cucciolate casalinghe. «Qui serve un intervento normativo. Bisogna vietarle. Vuoi farle? Studi, prendi un brevetto, ottieni un’abilitazione da allevatore. Se no, niente. E quando nessuno li prende, finiscono in canile».
E la sterilizzazione, allora? «No, non per tutti. La sterilizzazione e la castrazione non sono soluzioni universali. Se ho un cane emotivo, nove volte su dieci se lo castri peggiori la situazione. Il punto non è sterilizzare, è vietare la riproduzione. Servono limiti legali chiari, non mezze misure». La domanda resta lì, sospesa: perché i canili sono pieni? Non basta parlare di abbandoni. Non è più solo una questione di coscienze leggere o colpe manifeste. È un problema che parte dalla mancanza di cultura, si alimenta nella facilità di adozione, si complica con l’assenza di filtri reali e si gonfia in un mercato parallelo che funziona a colpi di staffette, click e foto sui social. La risposta di Fiodor Verzola è tanto semplice quanto scomoda: «I canili sono pieni perché nessuno si occupa di non riempirli». Serve prevenzione. Serve formazione. Serve responsabilità prima dell’adozione, non dopo. E servono leggi chiare, che dicano chi può davvero avere un cane, e chi no. Perché, in fondo, il canile migliore è quello che non esiste. E per arrivarci, non basta svuotare. Bisogna smettere di riempire. Consapevolmente.
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